Negli ultimi anni, alcune opere attribuite a Gino De Dominicis sono state oggetto di interessanti vicende giudiziarie. I casi affrontati dai giudici italiani riguardano, in particolare, l’attività di autenticazione delle opere. Ed infatti, nel nostro ordinamento, «chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti (…) contraffatti, alterati o riprodotti» commette il reato di contraffazione di opere d’arte, oggi punito «con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 3.000 a euro 10.000» (art. 518 quaterdecies c.p.; prima della riforma introdotta dalla L. 22/2022, la stessa fattispecie era punita dall’art. 178, comma 1, lett. c), D. Lgs. 42/2004). Abbiamo esaminato tre sentenze, di tre tribunali diversi: Roma, Pesaro e Bolzano. Ecco l’ultima puntata.
IL CASO DE DOMINICIS: LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI BOLZANO N. 1715/2023.
Anche una recente sentenza del Tribunale di Bolzano – Sezione penale si è occupata del caso legato ai presunti falsi De Dominicis.
La decisione è intervenuta nell’ambito di un procedimento penale nel quale s’ipotizzava, a carico dell’imputata, il delitto di contraffazione di opere d’arte.
All’epoca dei fatti (per come contestati dalla pubblica accusa), ovvero nel 2018, la fattispecie penale di contraffazione di opere d’arte era prevista dall’art. 178, comma 1, lett. c) del D. Lgs. 42/2004: la norma puniva «con la reclusione da tre mesi fino a quattro anni e con la multa da euro 103 a euro 3.099 (…) chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti, indicati alle lettere a) e b) contraffatti, alterati o riprodotti».
Tale ipotesi di delitto è invece oggi prevista dall’art. 518 – quaterdecies c.p. per effetto della riforma introdotta dalla L. 22/2022, con cui è stata peraltro inasprita la pena (reclusione da uno a cinque anni e multa da € 3.000 a 10.000).
Precisamente, nel caso deciso dal Tribunale di Bolzano, la pubblica accusa aveva chiesto la condanna dell’imputata sostenendo che questa avesse posto in commercio, presso una casa d’aste sudtirolese, cinque opere «contraffatte a firma di Gino De Dominicis».
Nel decidere sulla responsabilità penale dell’imputata, la sentenza bolzanina ha innanzitutto premesso che, a ben vedere, la questione ruota tutta attorno alla «autenticità o meno delle opere dell’artista Gino De Dominicis commercializzate». Più esattamente – si legge nella sentenza – si tratta quindi di verificare la «riferibilità dell’opera all’artista, quanto a ideazione o materiale realizzazione (che possono essere anche requisiti alternativi)».
Il giudice concede, sul punto, una breve ma interessante digressione, constatando che la questione dell’autenticità e paternità dell’opera d’arte è particolarmente complessa quando si tratte di alcuni degli sviluppi artistici tipici del XX Secolo, come l’arte ready made e l’arte concettuale. In questi casi, infatti, il riconoscimento della paternità dell’opera finisce per basarsi su elementi esterni rispetto all’opera stessa e su elementi che, spesso, sono di natura atecnica: ad esempio, per riconoscere l’autenticità di un manufatto diventano fondamentali le dichiarazioni rese in vita dallo stesso autore oppure le testimonianze di chi «abbia direttamente avuto contatti con l’artista».
Il giudice altoatesino ricorda, poi, che, nel nostro ordinamento, la facoltà di rilasciare le autentiche «appartiene a chiunque sia ritenuto competente dal mercato». Detto altrimenti, chiunque può attestare la paternità di un’opera: è poi chi acquista e chi vende le opere a stabilire, in fin dei conti, se l’autentica provenga da una fonte sufficientemente autorevole ed affidabile.
Una volta delineate le coordinate essenziali entro le quali s’inserisce il giudizio, il Tribunale di Bolzano ha rilevato come, nel caso di specie, non sia possibile provare, oltre ogni ragionevole dubbio, se le opere commerciate dall’imputata siano dei falsi.
Ed infatti, la tesi avanzata dalla pubblica accusa (secondo cui le opere sarebbero, appunto, false) poggia principalmente sulla perizia resa dalla consulente di parte nominata dalla procura della Repubblica.
Quest’ultima, infatti, ha sostenuto, anche nel corso del dibattimento, che tutte le opere commercializzate dall’imputata sarebbero non autentiche. Ciò sarebbe dimostrato – secondo l’esperta – dalla totale mancanza, nelle opere esaminate, della precisione, dell’accuratezza, dell’attenzione al dettaglio e della «pulizia» tipici dell’arte di De Dominicis.
Una simile argomentazione, però, non è stata ritenuta sufficiente dal giudice penale. Ed infatti, secondo il Tribunale di Bolzano, la perizia «appare totalmente inidonea a sostenere un giudizio di responsabilità penale». Sul punto, la sentenza spiega che il contributo peritale si basa su valutazioni e considerazioni vaghe e, in fin dei conti, inadeguate allo standard di rigore tecnico-scientifico richiesto nelle aule penali. Ma c’è di più. Secondo il giudice di Bolzano, la perizia cadrebbe addirittura in contraddizione: ciò perché dapprima la consulente attribuisce particolare importanza ai tratti caratteriali tipici di De Dominicis, ma poi la stessa esperta ammette anche che si tratta di un artista in realtà schivo e «restio a qualsiasi catalogazione e omologazione».
Anche una volta riscontrata la vaghezza della perizia proposta dalla procura della Repubblica, il Tribunale non ha comunque ritenuto utile disporre una consulenza d’ufficio. La motivazione di tale scelta è interessante. Il giudice ha spiegato come l’esito di un’altra eventuale perizia avrebbe comunque portato soltanto «l’ulteriore parere, inevitabilmente soggettivo, dell’ennesimo studioso». In altri termini, la questione relativa all’autenticità delle opere commercializzate dall’imputata si ridurrebbe ad uno scontro tra esperti, ognuno dei quali parteggi, in certo senso, per la propria tesi.
E, quindi, se non è possibile stabilire, in modo certo ed attendibile, se i manufatti sono dei falsi, allora non è nemmeno possibile affermare se c’è stata una contraffazione di opere d’arte.
Sulla base di tali considerazioni, dunque, il Tribunale di Bolzano ha assolto l’imputata perché il fatto non sussiste.