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Dopo ARCO: tre mostre da non perdere a Madrid

Antoni Tàpies, 7 de noviembre, 1971, Archivio Fotografico del Centro Reina Sofia
Durante la settimana di ARCO Madrid entusiasmanti sono state anche alcune mostre che abbiamo potuto scoprire fuori dalla fiera, in una città che – l’ha detto a chiare lettere pure Maribel López, direttrice di ARCO – sta vivendo anni di vera e propria grazia: Madrid, infatti, è uno dei centri più attraenti d’Europa, dove cittadini e turisti vivono le sue strade e locali di giorno e di notte; la percezione di sicurezza è pressoché assoluta e lo spirito latino è mescolato alla razionalità e all’ordine del nord Europa. Quasi un paradiso metropolitano, ammesso che ancora ne esistano, i cui prezzi sono schizzati in alto.
Ma non siamo qui per parlare di costi di caffè o di camere d’albergo, quanto per raccontare tre highlights fuori dalla fiera, che potrete scoprire anche senza la spinta di ARCO.

Al terzo piano del Reina Sofia, lasciata la folla che riempie le sale della collezione permanente, c’è una mostra che è contemporaneamente un omaggio e un monito sul “senso” del fare arte: non è un caso, infatti, che il titolo sia proprio “La práctica del arte” – lo stesso del libro che l’artista pubblicò nel 1971, un viaggio ipnotico attraverso l’universo poetico del catalano Antoni Tàpies.
Escludendo gli spazi della sua Fondazione a Barcellona, questa è la più ampia retrospettiva finora dedicatagli, nell’anno del suo centenario: Tàpies nacque infatti il 13 dicembre 1923, coetaneo del Manifesto Surrealista, lanciato nell’autunno dell’anno successo. E fu seguendo lo stile del movimento di André Breton che Tàpies cominciò la sua carriera, omaggiando il poeta Federico García Lorca e ponendosi così, dal principio, come artista “politico”.
Antifranchista e difensore dell’autonomia catalana, Tàpies partecipò alla terza Documenta a Kassel, nel 1964: impressionanti le tele che dipinse per l’occasione oggi esposte al Reina, che Gillo Dorfles descriveva così nelle Ultime tendenze dell’arte di oggi: “Le ampie, sensibilissime, dell’artista catalano, con le loro superfici scabre, spesso grumose, alle volte intersecate da profonde crepe, da spaccature, da incavi, possono sembrare addirittura le creazioni di un fac-simile di veri e propri paesaggi, quasi schemi stesi in maniera da comprenderne la lettura, conferendo ai rilievi, alla differenza di struttura e di colore, quel valore emblematico che siamo soliti attribuire al plastico orografico”.
Associato al Movimento Informale che in Italia ebbe il suo massimo esponente in Alberto Burri – che condivise con il collega spagnolo il rifiuto del fascismo e l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale in prima persona – Tàpies esplorò la meraviglia dei materiali pittorici, dimostrando la capacità di creare dipinti con tutto ciò poteva essere a portata di mano: legno e gesso, sabbia e acrilico, cemento e cartone, mettendo in luce la cruda realtà della dittatura spagnola e denunciando anche il genocidio avvenuto nei Balcani all’inizio degli anni ’90, quando l’artista rappresentò il suo Paese alla Biennale di Venezia (nel 1993), vincendo il Leone d’Oro. Una mostra rigorosa, curata da Manuel Borja-Villel, ex direttore del Reina dal 2008 al 2023 e della Fondazione Tàpies dal 1990 al 1998, le cui sale sono un crescendo, culminando nella fase più cupa della vita, di quella vecchiaia che per Tàpies significò anche un avvicinamento pressoché totale della sua arte al tema della malattia e della morte.
In definitiva, difficile pensare a una mostra più “contemporanea” de “La práctica del arte”: un viaggio per pensare alla creazione come lotta ideale e intramontabile contro i conflitti che continuano a scuotere il pianeta e una riflessione intima sui doveri poetici dell’artista, nei confronti del suo tempo e della storia.

Precious Okoyomon, When the Lamb rise up against the bird of prey, Fundación Sandretto Re Rebaudengo Madrid © Benedetta Mascalchi

Un progetto visionario e dal timbro surreale che in questi giorni si può scoprire in un posto emblematico della capitale spagnola è “When the Lambs Rise Up Against the Bird of Prey”, (Quando gli agnelli si ribellano al rapace) dell’artista inglese Precious Okoyomon (Londra, 1993).
Realizzato dalla Fundación Sandretto Re Rebaudengo Madrid, in collaborazione con il Comune di Madrid, l’intervento sarà visibile fino al prossimo 3 aprile nello spazio circolare che sorregge la Montaña de Los Gatos nel Parco del Retiro (ingresso da Plaza de Fernán Núñez).
Qui, in quello che viene considerato di per se un ambiente quasi alchemico dalla cittadinanza, Precious ha realizzato un’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk) per la sua combinazione di molteplici discipline: all’interno della Montagna una foresta impregnata del profumo della terra, degli alberi e dei fiori, una mise en abyme che nasconde tra sua la vegetazione un essere ibrido-antropomorfo animatronico. L’animale simbolico, stavolta, assume una nuova identità: partendo dal testo della poeta e saggista Anne Boyer che dà il titolo alla mostra, scritto nel 2014, l’artista offre uno sguardo laterale in contrasto all’idea tradizionale che si riserva all’agnello come vittima sacrificale e, contemporaneamente, animale della salvezza. In una nuova elegia e liturgia, fatta di musica e letture di testi poetici che la stessa artista ha raccolto in un libro-catalogo realizzato per l’occasione, l’agnello viene interpretato come una creatura saggia e intuitiva, in grado di sopravvivere a predatori e scenari apocalittici. E la partitura incompiuta Mysterium di Alexander Scriabin (1872-1915), arrangiata dal compositore spagnolo Juan Manuel Artero, aiuta – come spiega Obrist – a dimostrare la “versione della fine del mondo” di Okoyomon. O, per dirla con le parole di Boyer: “L’agnello non apprende seguendo il desiderio: l’agnello impara intendendo il mondo come un sistema, in tutte le sue variazioni e relazioni, per mantenersi vivo nella sua interiorità”. Una visione dai toni surreali in grado di penetrare l’immaginario come l’acqua nella terra di un bosco popolato di animali e dai loro doppi.

Jorge Pineda, vista di Happy, ph. Eduardo Cabrera

Infine, al Centro de Arte Complutense, nella zona della Città Universitaria, scopriamo la figura affascinante di Jorge Pineda, nato in Repubblica Dominicana nel 1961 e scomparso poco più di un anno fa. Il titolo, se non tutto, dice tanto: “Happy”.
Scriveva di sé, Pineda “Sono una persona felice. Chissà questo mi permetta di vedere l’humor nelle cose, anche nel dolore. Credo che la felicità non si possa definire dall’esterno. Sono cosciente delle condizioni che compongono la mia vita; cerco di mantenere con loro un dialogo trasparente, con la maggiore obiettività possibile”.
Istrionico, disegnatore, scultore, nelle sale del CAC si rincorrono quasi 50 opere, tra cui alcune grandi installazioni realizzate con i più svariati materiali: un campo di coriandoli, una sala con frammenti di “ossa” in gesso sulle quali poter scrivere sul muro nero, lasciandosi ispirare dalle simboliche spoglie che potrebbero essere – spiegava Pineda – di grandi scrittori e filosofi che contribuirono ad una “educazione” della società. E poi le figure in penna BIC, maschere, ibridi e bambini collegati al mondo; il mondo dell’infanzia, emblema di umanità e innocenza, da sempre servì come fonte di ispirazione per Pineda che, allo stesso tempo, caricava di colori una forte critica sociale e il proprio impegno per i marginalizzati.
“Le condizioni economiche e sociali di Santo Domingo fanno sì che ci sia un grande numero di bambini che vivono per strada. Ecco perché cerco di riflettere nel mio lavoro sulla mancanza di umanità del pianeta…”, scriveva l’artista. Un’altra mostra necessaria, diametralmente opposta allo stile della vertigine dei vuoti di Tàpies ma che riflette ugualmente (anche) sulla vita e sui suoi lati oscuri.

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