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I favolosi anni Sessanta di Jim Dine nel project space di Pace Gallery a New York

Jim Dine, The Studio (Landscape Painting), 1963 © Jim Dine / Artists Rights Society (ARS), New York.
Jim Dine, The Studio (Landscape Painting), 1963 © Jim Dine / Artists Rights Society (ARS), New York.

125 Newbury è un project space di New York diretto dal fondatore e presidente di Pace, Arne Glimcher. «Guidato dai sessant’anni di attività espositiva pionieristica di Glimcher e dall’impegno costante per una stretta collaborazione con gli artisti, 125 Newbury presenta fino a cinque mostre all’anno, concentrandosi su collettive tematiche e mostre personali di artisti emergenti, affermati e storici», ha ricordato la galleria. Da oggi al 20 aprile 2024 125 Newbury presenta la mostra “Jim Dine: The Sixties”.

Il percorso espositivo «riunisce più di una dozzina di dipinti, sculture e opere su carta di Jim Dine, figura di spicco dell’avanguardia newyorkese del dopoguerra. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, Dine ha avuto un ruolo centrale nel movimento Happenings della città e nell’emergere del Pop. Questa selezione di opere giovanili, datate tra il 1959 e il 1973, riflette l’esplorazione di Dine della forza poetica degli oggetti quotidiani. La mostra nasce dall’amicizia di lunga data tra l’artista e Arne Glimcher, che ha presentato numerose mostre di Dine alla Pace Gallery a partire dal 1976. Celebrando l’eclettismo e l’azzardo delle prime sperimentazioni dell’artista, la mostra ripercorre i temi chiave dell’arco del suo sviluppo nell’arco di 15 anni».

Jim Dine, Things in Their Natural Setting (First Version), 1973

Il percorso espositivo

«La mostra inizia – ha anticipato la galleria -con il quadro fondamentale di Dine, Car Crash (1959-60), che condivide il titolo con l’Happening realizzato nel 1960 alla Reuben Gallery di New York.

Una superficie tenebrosa e pesantemente lavorata con pigmento nero su iuta irradia un’intensità cupa, ricordando due incidenti d’auto che l’artista subì in rapida successione durante l’estate del 1959, eventi cruciali e traumatici che avrebbero reso più scuro il suo lavoro in questo periodo. La forma di una croce rozzamente scarabocchiata, che diventerà un motivo dell’iconografia di Dine, si ripete sulla superficie del dipinto. A metà strada tra gesto e simbolo, la croce ricorre in altre opere di questa serie, suggerendo allo stesso tempo un memoriale stradale e un simbolo universale di soccorso».

«Questo senso di dualità attraversa le opere in mostra. Gli attrezzi quotidiani dello studio dell’artista, così come i ricordi dell’infanzia di Dine trascorsa tra le corsie della ferramenta del nonno – martelli, stivali, tavolozze, tabelle di colori, eccetera – emanano un senso di trasfigurazione. Spesso confondendo i confini tra pittura e scultura, le rappresentazioni di Dine di questi strumenti ordinari coniugano illusione e realtà».

«Nei dipinti di Dine, l’intensità espressionista si scontra con un letteralismo senza fronzoli. In The Studio (Landscape Painting) (1963), Dine medita sulla natura della rappresentazione, giustapponendo una “natura morta” letterale di oggetti trovati a un montaggio pittorico di espressioni espressioniste astratte, offrendo un commento ironico sulla storia del medium e sul suo rapporto con la realtà vissuta. Things in Their Natural Setting (First Version) (1973), realizzato un decennio dopo, trasmette una sensibilità altrettanto arcaica. Una campitura all-over di pennellate astratte e gestuali nei toni del verde diventa un “supporto” per strumenti reali – cacciavite, mazzuolo, pennello, cazzuola – che sono fisicamente fissati alla superficie del dipinto da fili e penzolano liberamente dal fondo della tela. Il gioco scanzonato e al tempo stesso mortalmente serio tra verità e illusione, oggettività e materialità incarna le tensioni che esistono al centro della pratica dell’artista».

«Per Dine, il fare è un atto di trasfigurazione. Sculture virtuosistiche che raffigurano oggetti industriali duri assumono miracolosamente la morbidezza della carne, mentre i contorni morbidi delle cravatte di tessuto nei dipinti dell’artista assumono in qualche modo una solidità statuaria. Un vecchio stivale di cuoio appoggiato su un fianco su un cuscino di velluto ha la seducente corpulenza di una Venere reclinata. Le cravatte lampeggiano con minacciosi bordi metallici. Un paio di martelli verticali sono allungati in un portamento suggestivamente organico, formando un’architettura di ingresso o di ritiro. Altrove, i contorni delle tavolozze dei pittori diventano finestre su un paesaggio disseminato di specchietti per auto e ventole elettriche, riflettori e conduttori».

«Nelle opere in mostra, Dine si infiltra e sconvolge il flusso ordinario delle cose. Con la sicurezza di un antico maestro dei giorni nostri, Dine orchestra un senso di sottile crescendo, celebrando il trionfo della natura attraverso le glorie della realtà. I suoi investimenti pittorici e scultorei affondano le radici nelle sue prime sperimentazioni di performance e poesia. Come altri artisti del periodo, tra cui Claes Oldenburg, Lucas Samaras e Robert Whitman – co-cospiratori degli Happenings – ha abbracciato le sensibilità dadaiste e le ha spinte alle loro conclusioni più radicali. Come testimoniano i dipinti e le sculture di questa mostra, il lavoro di Dine in questo periodo ha contribuito a rimodellare radicalmente i contorni di ciò che l’arte poteva essere».

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