A Milano Bicocca, BiM (via dell’Innovazione 3), ha fatto boom con la prima mostra di monografica italiana dedicata a David Horvitz, a cura di Nicola Ricciardi, dall’emblematico titolo “Abbandonare il locale”, allestita al sesto piano di un ex ufficio ancora dismesso di un asettico edificio progettato da Vittorio Gregotti, in occasione di miart.
Horvitz (Los Angeles, 1982) per questo spazio ancora in riqualificazione – che rientra in un ampio progetto di rigenerazione dell’intero edificio e di riqualificazione urbana di quello che sarà un nuovo distretto di arte e creatività Bicocca Incontra Milano, vicino all’Università – lavora intorno al concetto di costruzione, decostruzione e trasformazione, con l’obiettivo di materializzare il titolo no time no space, estremamente evocativo scelto per la 28.ma esima edizione della fiera d’arte milanese da Ricciardi.
La mostra ruota intorno a 20 opere dell’artista statunitense, una piccola antologica che ripercorre la sua carriera artistica: fa pensare Imagined Clouds (Milan), costituita con un centinaio o poco più di bottiglie di plastica di tutte le forme e diverse dimensioni posate a terra, abbandonate dopo una giornata di lavoro, che aprono una riflessione sulla dimensione del lavoro, dove l’acqua diventa una metafora di evasione. Le opere sono state riadattate in un ufficio dismesso, affascinate proprio perché non finito, in progress, com’è tutta la mostra di Horvitz soggetta a cambiamenti quotidiani a seconda della sua sensibilità e volontà, mescolando un approccio site-specific con la sua attitudine performativa.
Sono lavori in dialogo con l’edificio, bisogna osservare e pensare, trovare l’arte che si svela nei dettagli degli ambienti. Con The Distance of Day (2013), l’artista propone due video realizzati contemporaneamente da lui e sua madre in California e alle Maldive, uno al sorgere del sole e l’altro al tramonto della stessa giornata, e in questo ambiente si materializza l’orizzonte di un meta-spazio che si immagina passando in mezzo a due cellulari incastonati al muro, che mostrano luoghi diversi e provocano nel fruitore una percezione del tempo alterata, appunto no time no space. Tra questi e altri lavori dell’artista – erede di Fluxus, performer, che ha trovato nel web il contesto ideale per progetti di straniamento spazio-temporale, la casualità e gli eventi non prevedibili incidono sulla modalità del suo lavoro: in questo straniante edificio si è palesata una opportunità di misurarsi con il preesistente in cui ogni singolo dettaglio degli ambienti, può sovvertire codici, messaggi e per inscenare confini ambigui tra le parti.
La mostra estremamente concettuale per essere decodificata ha bisogno di narrazioni ed efficace comunicazione, ma grazie agli oggetti trovati qua e là negli ambienti irrorati dalla luce naturale grazie ad ampie finestre, assume anche una dimensione poetica dove, tra verde, fiori, acqua e vasi di vetro prende forma una umanità in un work destination, si spera all’avanguardia.
Il progetto di allestimento e di illuminazione è a cura di SPECIFIC, laboratorio di progettazione e produzione creativa multidisciplinare formato da Patrick Tuttofuoco, Nic Bello, Alessandra Pallotta, Andra Sala e Stefano D’Amelio. Stasera, inoltre, si inaugura la mostra “Salone Calmo. A Showcase of Campeggi Objects”, curata da C41, la rivista indipendente e casa di produzione creativa, presentando una ricontestualizzazione di “Underborg e Ipno”, divani trasformabili di Campeggi, disegnati da Lorenzo Damiani e Finematria. Non perdetevi la donna di pane di Alessandra Pallotta adagiata sul divano in posa plastica e accogliente; davvero guizzanti 4 divani letto all’interno della galleria, posti in dialogo con 16 opere fotografiche di Roy Gardiner che ritraggono i quartieri di Bicocca e QT8, Nolo e Bovisa, e un documentario video della realizzazione delle opere. Infine, gli oggetti di campeggio sono davvero performanti, pronti a trasformarsi in “sculture” e soggetti d’arredo da vivere e usare che messi lì apparentemente per caso, alterando completamente la percezione dello spazio e smuovono una riflessione sul ruolo del design e luoghi nomadi dell’abitare urbano che piacerebbero a Ugo La Pietra.