Una puntata speciale de “Il sole allo Zenit” per ricordare la complessa figura del gallerista, scrittore, collezionista ed editore Daniel Marzona, scomparso lo scorso 24 aprile
Anche le informazioni che già si conoscono, e che a lungo si studiano, è bene riprenderle tramite certi libri che aiutano a fare ordine. E come quella vecchia radio Grundig degli anni ’70 che divulgava musica e programmi interessanti nella mia infanzia ma che aveva la costante esigenza di muovere o allungare la telescopica antenna, così mi sentii io, quando tra il 2006 e il 2007 recuperai due libri Taschen che aggiornarono le mie frequenze. Semplicissimi già nel titolo: “Arte Concettuale” uno, “Arte Minimale” l’altro, avevano due copertine non da poco. Nella prima compariva in bella vista Window or Wall Sign, un neon rosso e blu del 1967 di Bruce Nauman, che riportava una frase mitica per l’epoca: The True Artist Helps the World by revealing Mystic Truths. Nell’altro libro la pagina era riempita da un particolare della Wall Structure di Sol Lewitt chiamata Five Models with One Cube. Con un’impostazione semplice e molto rigore, si citavano nelle due pubblicazioni tutti i nomi che uno come me avrebbe voluto leggere insieme. Da Marcel Duchamp per iniziare, a una lista da capogiro in ordine alfabetico: Vito Acconci, Art & Language, Michael Asher, John Baldessari, Robert Barry, Bernd and Hilla Becher, Mel Bochner, Alighiero Boetti, Marcel Broodthaers, Stanley Brouwn, Daniel Buren, Victor Burgin per fermarci alla lettera B della “Conceptual Art”. Mentre l’elenco “Minimal” iniziava da Carl Andre e proseguiva con Stephen Antonakos, Jo Baer, Larry Bell, Ronald Bladen, Walter De Maria, Dan Flavin, Robert Grosvenor e arrivava a Anne Truitt e Robert Smithson.
Di ogni autore venivano prese poche opere come esempio, a volte una sola addirittura. Lavori emblematici che riassumevano ricerche intere, con un senso della sintesi che appartiene solo a chi conosce bene le scene. Qualche esempio: i Distorted Square/Circle per Robert Mangold esponevano ciò che accadeva di fatto nell’opera, con una pratica comune a chi s’interrogava su forma e superficie; Splitting di Gordon Matta-Clark trasformava una banale costruzione urbana in una spettacolare scultura, ottenuta tagliando una casa a due piani e abbassando il livello di una delle porzioni, allargando una sezione con la cuneiforme apertura che attraversava l’intera facciata; How Many Pictures di Louise Lawler documentava il riflesso a pavimento di un lavoro di Frank Stella, esaminando soltanto il contesto. E ancora: le Torri d’estrazione per i coniugi Becher, le cartoline con la scritta I Got Up di On Kawara e la performance sull’autobus di Adrian Piper che nella Catalysis IV s’infilò in bocca un tovagliolo con i lembi che le pendevano sul mento, registrando la reazione delle persone che la fissavano incredule. Il testo poi d’introduzione alle pubblicazioni fu per me come il bigino di latino in prima superiore prima di una temuta interrogazione.
Riuniva l’elenco delle mostre che si dovevano conoscere: l’ “Op Losse Schroeven: Situaties en cryptostructuren” di Amsterdam, “Live in your Head. When Attitudes become Form” a Berna, la “Prospect 69” di Düsseldorf, insieme a altre rassegne divenute leggenda, oltre a citare i curatori che spianarono le strade: Harald Szeemann, Lucy Lippard, Seth Siegelaub, George Maciunas, e Tristan Tzara prima. Il saggio provava anche a rispondere alla fatidica domanda: “cos’è l’arte?” e spiegava come Herry Flint nel 1963 avesse dato il via al termine “Concettuale” a partire dalla “Concept Art” che aggiunse molto alla spiegazione al tempo a me nota del Gino nazionale che qui si fermava: “il termine arte concettuale, di origine americana, in Italia è molto piaciuto forse perché ricorda nomi di persona molto diffusi come Concetta, Concezione, Concettina ecc.; e viene di continuo usato stupidamente per etichettare tutto ciò che in arte non è immediatamente riconoscibile”. Tante altre informazioni sulle pubblicazioni citate le annotai poi con curioso piacere e il loro recupero mi diede parecchio da fare nell’era precedente alla mia iscrizione all’AbeBooks internazionale: l’antologia di Gregory Battock, il primo numero della rivista di Art & Language, la teoria critica di Marcuse, tra le altre.
Quando un giorno a Berlino incontrai finalmente l’autore, tramite un amico comune, immaginavo un vecchio saggio panciuto e barbuto dagli occhi cisposi e scuri, ma mi dovetti ricredere. Era glabro, longilineo, con lucidi occhi azzurri, e quando scoprii che aveva soli 11 anni in più del sottoscritto mi venne voglia di mettere la testa nel forno. C’erano molte curiosità che volevo soddisfare e nel tempo provai ad allungare il collo per tentar di coglierle. Con rara semplicità mi raccontò cose straordinarie che potevano ribaltare intere prospettive e mi facevano sentire come Biagio da Cesena nelle vesti di Minosse nel sommo Giudizio Universale.
La passione comune ci spinse a condividere notevoli avventure: mi presentò il mitico Stanley Brouwn che rifuggiva le persone rannicchiato nel sottoscala della galleria di Konrad Fisher durante l’allestimento di una sua indimenticabile mostra alla cui vernice ovviamente poi non prese parte; recuperammo insieme, direttamente dalla famiglia, una rarissima tela di Marcel Broodthaers costituita dagli MB della sua famosa firma per conto di un ansioso collezionista che la pagò a rate, versandone addirittura più di quelle dovute; acquisimmo una poetica fotografia di Richard Long di un suo mitico viaggio in Mongolia, ricevendo una fattura scritta a mano dall’artista che era opera essa stessa. Ma, sebbene incrociassimo i dati e le informazioni con frequenti discussioni, gettavo spesso la spugna arreso quando mi diceva di aver dormito a casa di Sol (Lewitt) e di aver pranzato con Bruce (Nauman), o quando mi raccontava un dettaglio della vita privata di un qualsiasi autore, che io non avevo nemmeno mai avuto la fortuna di incontrare, e che preferisco non dire.
Poi la scorsa settimana, una notte malvagia, s’è portata via lo scrittore, l’editore, il gallerista, il curatore, con il quale, negli anni, ho avuto la fortuna d’intensificare la collaborazione e iniziare un progetto insieme: la Canal Room milanese, che cambierà nome in suo onore, da Settantaventidue. E questo breve testo non basta certo a ricordare il mio caro amico, la sua mente acuta, la sua gentilezza e la splendida persona. Ciao Daniel, Daniel Marzona.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni