Trent’anni dopo le vuvuzela strombazzanti di USA ’94, Plamen Dejanoff rimette insieme i pezzi di una vita vissuta nella sua Bulgaria. Perché se il passato non è mai solamente “passato” è un Heritage project.
All’opera del Plamen Dejanoff (Sofia, 1970) di oggi – ma in realtà anche a quella dell’artista che abbiamo imparato a conoscere da un po’ di anni a questa parte – sappiamo dare una connotazione verbale ben precisa: icastica. Oggi, perché un tempo ci saremmo orientati su “iconica”, aggettivo più abusato, ma anche più indicativo di un prodotto visivamente figlio della globalizzazione, popolarmente “mainstream” secondo accezione contemporanea. Heritage project da Pinksummer è anche questo: la prova certificata di come nulla sia per sempre, neppure gli aggettivi che altri scelgono di appiccicarti addosso. E che anzi, è un attimo che tu stesso possa fare la fine di Fellini e diventare un aggettivo. “Dejanoffiano” suona mica male.
Che poi “dejanoffiano” potrebbe indicare una certa attitudine all’evoluzione. Dejanoff, infatti, è uno che dalla sua ha acquisito l’esperienza di chi sa dare spazio al racconto, alla ricostruzione filologica di un passato meritevole di spazio nel presente. E che il presente stesso sia un’epoca a più riprese sfociata nel “presentismo”, fenomeno sociale per cui molti appartenenti alla specie umana tendono a credere che quanto accade oggi “è punto e basta” (senza, ad esempio, costituire in nessun modo derivazione di un passato remoto o prossimo), ci rende il buon Plamen ancor più umanamente – prima che artisticamente – adorabile.
Heritage project è un’operazione tra astrazione e concretezza, mitizzazione, autenticità e un’unica certezza: il fatto amano. Come quell’importante lampadario in bronzo altezza uomo, sostenuto da una (sobria) cinghia giallo fluo. Pezzo unico, che l’artista ha interamente ricoperto in una pittura ad azzurrite legata con olio di lino cotto. E mentre il mix tra valore oggettuale e vernice ci porta – non dritti, perché l’arte non è lineare come te la vogliono far credere – alla plasticità di Louise Nevelson, assistiamo ad un’operazione in cui Dejanoff ha già moltiplicato il valore di effettivo e affettivo di quell’oggetto. Tolto dalla sua funzione per essere ri-funzionalizzato in ognuno dei suoi dettagli (unici) in bella evidenza; che come un testo raccontano la Bulgaria di Dejanoff, all’interno di un’ambientazione identitaria su cui non è intervenuto in termini di ricostruzione fattiva, bensì di labilità costruttiva. Un’ambientazione in cui ogni oggetto è reale, tangibile, ma suscettibile di quella precarietà spazio-temporale che solo la messa in opera presente di alcuni pezzi può descrivere: assieme al lampadario i quattro vetri soffiati, posti ognuno su una parete, e le decorazioni ricoperte in malachite.
Ritagliarsi uno spazio, ricostruire al suo interno una filologia esistenziale; passando dal collettivo al personale, ma anche pensando che la storia di una collettività è fatta di tante storie personali. È fatta di oggetti che raccontano le specificità un territorio, persone che ne hanno vissuto i cambiamenti politici e sociali, luoghi come la scuola a indirizzo sportivo di Tarnovo. E basarsi su tali fondamenti essendo Dejanoff, per comporre e condividere una storia che ancora non conosciamo, ma su cui abbiamo margine per riflettere. Anche attraverso l’ultimo degli oggetti narranti di questo progetto: una porcellana/trofeo, emblema indigeno di USA ’94, il mondiale della Bulgaria in semifinale contro l’Italia. Su di essa un francobollo celebrativo – applicato stupendamente en passant – a celebrare gli undici protagonisti di quell’impresa, incluso il celebre Trifon Ivanov, concittadino e mito di Plamen. L’alzata in legno è incastrata a mano, dipinta con tempera a colla da Dejanoff. Che ha messo su un autentico altarino della “produzione propria”, proponendoci la visione più totemica di un Heritage project lavorato seguendo quella frizione tra coscienza del sé/saper fare e aspirazione nel riuscire a tramandarne traccia. Tramandarne traccia a chi non sa che trent’anni fa sei dei protagonisti di quello scatto – e di quella corsa verso la vittoria fermata proprio dalla nostra Nazionale – provenivano dalla scuola a indirizzo sportivo di Tarnovo, prodotto autoctono di un sistema educativo che di lì a pochi anni sarebbe cambiato totalmente. La stessa scuola inizialmente frequentata da Dejanoff. Che alle aspirazioni calcistiche preferì portare avanti il suo vero sogno: entrare nell’istituto a indirizzo artistico, per diventare un inconfondibile interprete del contemporaneo. E oggi mettere a segno il suo Heritage project.