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Il plagiatore plagiato

Installation view of “Maurizio Cattelan” at Gagosian, 2024. © Maurizio Cattelan Photo: Maris Hutchinson, courtesy Gagosian
Leggo in cronaca: Maurizio Cattelan inaugura una mostra a New York (da Gagosian, nientemeno, curata da Francesco Bonami, nientemeno) «Ma a soli dieci giorni dall’inaugurazione della nuova mostra, l’artista padovano è stato accusato di plagio. La segnalazione è arrivata in una lettera di cinque pagine recapitata a Cattelan dallo studio legale Doniger Burroughs, che indica la somiglianza tra Sunday, l’opera che dà il titolo alla personale, e la serie Bullet di Anthony James, artista britannico-americano attualmente in mostra negli spazi newyorkesi di Opera Gallery»*.

Certo che è strano, io, nella mia ingenuità di spettatore-semplice, di appassionato non-addetto-ai-lavori, guardando le foto di questo Sunday di Cattelan, ho immediatamente pensato a certe opere di Lucio Fontana, quelle con i crateri dorati, e ovviamente ai quadri di William Burroughs, poi mi è venuta in mente la bellissima serie fotografica di Gabriele Basilico su Beirut divorata dalla guerra e un argenteo Rudolf Stingel e Niki de Saint Phalle, contemporaneamente, ho rivisto mille di film con il nostro eroe che imbraccia un’arma e spara uccidendo tutti i nemici crivellandoli di colpi (già, sono un appassionato di cinema tamarro, quello con gli eroi armati fino ai denti che sparano ai cattivi) e da qui, la catena delle associazioni mi ha portato in giro tra la cronaca del presente e le immagini della storia, per finire, chissà perché, alla foto del televisore – conservato come una reliquia a Graceland – su cui Elvis, il Re del Rock, sparò in un momento di scazzo. Ma alle opere dell’artista britannico-americano Anthony James proprio non ci ho pensato! Ho il sospetto che non ci abbia pensato neanche Maurizio Cattelan. Così, per fare insinuazioni, tanto è gratis, si potrebbe immaginare che questo James abbia fatto i suoi quadri credendo di essere originale, senza pensare esplicitamente a Fontana, Burroughs, Basilico, o a Rambo, o ai Talebani – forse perché non li conosce e questo non depone certo a suo favore – o credendo che noi spettatori-semplici lo trovassimo originale, beata ingenuità! O forse ha pensato che questi riferimenti espliciti, lui sì che li può fare ma siccome li ha già fatti lui, agli altri non è consentito e non è nemmeno consentito fare riferimenti alla sua opera… e qua siamo dalle parti del Marchese del Grillo. Insomma, a metterla così, il plagiatore è stato a sua volta plagiato!

Maurizio Cattelan installs his new work November (2024) at Gagosian. Photo: Christopher Payne

Ma al di là del caso un po’ grottesco, il punto è un altro: essere originali. Ci sono artisti che pensano di poter produrre opere “originali”, cioè che stanno all’origine di qualcosa, che sono come un cominciamento, opere che introducono una forma inedita, che innovano. E che di questa forma inedita – da proteggere con il copyright – si possa venir derubati da qualche furbacchione plagiatore. Bisognerebbe smetterla una volta per tutte con questa storia dell’originalità, è un concetto da “Anni-Venti” e francamente credevo che la nostra cultura avesse ormai superato il modernismo espresso in queste forme. Ci sono tanti storici e filosofi e critici che con buoni argomenti hanno destituito questo mito dell’originalità, un concetto che, in fondo, nella storia millenaria dell’arte non è mai esistito per davvero, se non per un breve momento nella testa di qualche giovane scalmanato avanguardista.
Per chiarezza, si potrebbe fornire una bibliografia ma mi astengo perché sono i libri che probabilmente si trovano sugli scaffali di chi guarda in modo professionale alle faccende dell’arte ma anche di chi, come me, se ne interessa per puro divertimento (se guardo gli scaffali della mia libreria non fatico a trovare testi in cui il mito dell’originalità è smontato in minuscoli pezzi, evidentemente sono testi che non stanno sulla libreria del signor James e nemmeno in quelle dei suoi stimati avvocati).

Maurizio Cattelan, ph. Vincent Tullo per NY Times

Però questa retorica dell’originalità come obiettivo o, peggio, come destino, dell’arte è anche quella che si trova praticamente in tutta la stampa, anche quella specializzata, quando si occupa di arte “contemporanea”, una narrazione spesso superficiale e inconsapevole che alimenta visioni e pretese e mette sullo stesso piano produzione artistica e produzione industriale, un settore in cui l’innovazione è intesa, e forse giustamente, come un “valore” imprescindibile. Rileggo allora questo brano fantastico del libro Kassel non invita alla logica di Enrique Vila-Matas – il libro è tutto fantastico, eh – in cui l’autore, in visita a Documenta 13, si domanda se l’arte deve dedicarsi all’innovazione e si imbatte in una intervista a una delle curatrici della mostra, Chus Martinez: «E quando le domandavano se si continuava a innovare nell’arte o se si stavano ripetendo degli schemi, lei rispondeva: Nell’arte non si innova, lo si fa in un’industria. L’arte non è creativa né innovatrice. Lasciamo queste cose al mondo delle scarpe, delle automobili, dell’aeronautica; è lessico industriale. L’arte fa, e ora cavatela da solo».

Insomma, l’arte fa. Ma, esattamente, cosa fa? Per me, l’arte fa dialoghi. L’artista è un chiacchierone che conversa con il mondo, con la storia, con altri artisti e qualche volta anche con se stesso. Queste conversazioni avvengono con invenzioni, certo, ma soprattutto con riprese, citazioni, copule, montaggi, appropriazioni, confronti, collisioni. Se sono buone conversazioni, aggiungono al mondo un pezzo di mondo. La storia dell’arte è fatta così, facciamocene una ragione. In questo caso mi sembra che il nostro Cattelan abbia conversato parecchio con Fontana e Rambo, con Burroughs e Elvis e magari anche con se stesso. Ora certamente, tramite uno studio legale, conversa con questo Anthony James, artista britannico-americano.

*Letto su Insideart, ma un pezzo simile è apparso su tutta la stampa specializzata.

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