Il valore del lavoro dell’équipe del museo ginevrino MAMCO, diretta da Lionel Bovier, è quello di compiere un’accurata ricerca nell’arte contemporanea andando sovente a riempire i buchi della storia, scavando nel recente passato e individuando i precedenti che hanno reso possibile gli sviluppi che oggi vediamo e che non sempre sono stati considerati
È un lavorio che avrebbe apprezzato Walter Benjamin, che ha fondato il suo concetto di storia su quello di “straccivendolo della storia”, laddove il non visto o non eclatante può avere una funzione invece rivelatrice. È poi il senso stesso della Nouvelle Histoire, fondata non tanto sulle gesta epiche, ma sul tessuto connettivo dato dalla vita della moltitudine, degli oppressi, dei dimenticati. Penso che sia di grande valore quindi lavorare in senso interstiziale, seguire rotte poco note o magari – appunto – ormai dimenticate, perché appiattirsi sull’esclusivo sguardo sull’oggi, benchè importante, non può essere l’unica chiave di lettura dell’arte del presente. Ed ecco allora che la mostra dedicata a Tishan Hsu (1951), la prima retrospettiva europea, fatta in collaborazione con la Secessione di Vienna, costituisce un esempio di antecedente di una ricerca che ha costantemente indagato l’interazione uomo-macchina/computer, costruendo – come analizza bene nell’introduzione Bovier – una genealogia che parte dai robot e arriva all’Intelligenza Artificiale. Il rapporto con la tecnica da Heidegger ad oggi costituisce una delle problematiche filosofiche trainanti della contemporaneità.
Hsu sin dagli anni Settanta-Ottanta ha composto dipinti in rilievo polimaterici in cui la superficie traduce i pixel della televisione e del computer in una griglia, magmatica e progressivamente ondulata come in un’opera Optical, dove galleggiano parti del corpo, completamente libere da qualsiasi articolazione ed invece immerse nel tessuto digitale, capace di incamerare i sensi e la carne, costruendo una perfetta analogia della nostra immersione nella tecnologia laddove il mescolamento dialettico tra pelle naturale ed artificiale costituisce la costante metafora utilizzata dall’artista nel corso degli anni. Da quella pelle, che a volte diventa ambiente tridimensionale, fuoriescono escrescenze strane, come se dallo schermo si liberassero particelle capaci di entrare plasticamente nel mondo reale.
La mostra di Paul Thek inizia con i suoi famosi Meat Pieces, che più tardi vengono detti Reliquiari Tecnologici, eseguiti a partire dal 1963 dopo il suo primo viaggio in Italia, dove fu colpito dalle catacombe dei Cappuccini a Palermo. In epoca di smaterializzazione dell’oggetto e di analisi semiotica del linguaggio, la sua può apparire come una via alternativa di ritorno al corpo nel senso letterale. In realtà la costruzione della Tomba a piramide tronca con all’interno il calco in cera e materiali vari del proprio corpo (in mostra sono presenti la mano mozza, le dita e la maschera con la lingua fuori del viso, gli unici pezzi rimasti) è un’opera che è stata considerata come una conseguenza di premesse create da Duchamp riguardante la considerazione del corpo e dell’apparato libidinale dell’artista e dello sguardo incarnato dello spettatore, presupposto sia nei resti di peli dell’artista incamerati nella Boite-en-valise (1946), sia nello sguardo erotizzato dello spettatore, bersaglio di Etant donné (1966), opera scoperta al pubblico proprio un anno prima della Tomba di Thek (E. Filipovic, The apparently marginal activities of Marcel Duchamp, 2016). Negli anni Sessanta Thek esponeva per le famose gallerie di New York Stable e Pace, tuttavia a fine anni Sessanta sceglie di vivere in Italia e Olanda ed è invitato a documenta 5 nel 1972. In Europa comincia a dipingere quadri su carta di giornale dove rappresenta paesaggi, sintetiche nature morte e figure legate a storie provocatorie o fiabesche, che sono testimoniate in mostra.
Curate da Elisabeth Jobin, le mostre di Erica Pedretti e di Paul Neagu vengono a colmare dei buchi della storia con riferimenti anche alla Svizzera. Pedretti (1930-2022), nata nell’attuale Repubblica Ceca, nel 1945 è emigrata in Svizzera, poi nel 1950-1952 si è trasferita negli Stati Uniti, per tornare in Svizzera nel 1952 dove si sposa e alterna il lavoro di artista con quello della scrittura di romanzi, articoli e testi radiofonici. Affascinanti sono i suoi Objets à suspendre di tessuto, piume, gesso sospesi con filo di ferro e suggerenti l’idea dell’ala, del volo, degli uccelli e strane creature che evocano il tema della libertà, del viaggio, dell’esilio. Poste talvolta all’aperto, sono lasciate alle intemperie che le dissolve e le restituisce alla natura. Il rumeno Neagu (1938-2004) invece, emigrato a Londra negli anni ’70, insegna in varie scuole a Londra, dove è maestro di Kapoor, Whiteread, Cragg, Chaimowicz. Coinvolto in letture antroposofiche, formula un Palpable Art Manifesto (1969), base teorica delle sue opere successive basate sulla suddivisione geometrica di ogni particella umana, secondo una visione “antropocosmica”. Nel decennio 1970 espone tre volte nella galleria Rivolta di Losanna (in mostra ci sono i materiali cartacei riguardanti le esposizioni fatte in Svizzera). Il MAMCO presenta anche altre piccole mostre dedicate a Manon, Sylvie Fleury (un’installazione), Ilse Garnier (poesia visiva).