Prato e Pistoia: una mostra in due tappe che propone un Ri-Nascimento di pensiero dopo un periodo di disorientamento e visioni cupe
Con il termine arcaico ‘nascimento’ si intende la nascita e quindi ‘ri-nascimento’ va a significare ri-nascita. Proprio in Toscana, terra che ha visto fiorire nel XV secolo il Rinascimento, la curatrice Marina Dacci propone un percorso in due tappe – ME Vannucci a Pistoia e Villa Rospigliosi a Prato – coinvolgendo nove artisti che nel contesto attuale mettono in evidenza una nuova linfa, ricercano una rinnovata visione e propongono un sostanziale mutamento di equilibri, una “rifioritura” di pensiero dopo un periodo di disorientamento e di visioni cupe.
L’esposizione a cui partecipano Bertozzi & Casoni, Elena Bellantoni, Chiara Bettazzi, Bianco-Valente, Serena Fineschi, Antonio Fiorentino, Cristina Gozzini, Silvia Listorti, Nazzarena Poli Maramotti si regge su tre pilastri fondamentali – riformulazione del corpo, riformulazione delle relazioni e riformulazione della natura e delle relazioni dell’uomo con la natura – che danno vita a questa nuova idea di ri-Nascimento teso a ricercare una nuova origine.
La sfida cui gli artisti sono invitati è quella di ridefinire i limiti e ricercare differenti potenzialità dell’uomo rispetto al contesto in cui si muove e stimolare approcci alternativi verso ciò che gli circonda.
Ogni artista interpreta a modo proprio questa ‘rinascenza’: nel caso di Antonio Fiorentino (Barletta 1987) le due grandi sculture che accolgono i visitatori davanti alla porta d’ingresso della galleria sono in realtà due corpi umani – uno dei quali con la testa piantata in terra; l’artista, infatti, lavora sul concetto dell’adesione alla natura e usa i consueti materiali come sabbia, cemento, resina, ossa. Sono quindi una sorta di anatomie uomo/albero scaturite da un amalgama di elementi di forme umane e di figure mitologiche.
Analogamente Nazzarena Poli Maramotti (Montecchio Emilia 1987), attraverso la pittura, mescola elementi naturali come acqua, terra, luce e li restituisce al fruitore con forme apparentemente indistinte, solidificati, intrisi di suggestioni, di stati d’animo, con tonalità coloristiche calde e vibranti.
Serena Fineschi propone una serie di matite colorate poste orizzontalmente sul muro come una linea sottile d’orizzonte che cattura la luce andando oltre al limite dello sguardo e creando impasti cromatici tra cielo e terra. La rigidità della composizione è interrotta dalla luce che vibrando sul colore emette onde sonore. Carte appoggiate a terra da cui emergono frammenti di pietra emulano il paesaggio e invitano a uno sguardo profondo del potere immaginativo tale da cogliere uno scenario sommerso che vada al di là di quello che ci è imposto di vedere.
Il video di Elena Bellantoni (Vibo Valentia,1975) Pensate domani è la fine del mondo nasce dalla suggestione per un frammento del film Nostalghia di Tarkovskij e, con il coinvolgimento di alcune giovani donne che indossano maschere da corvo, orchestra il video sulla scalinata del Vignola in piazza del Campidoglio a Roma. L’immagine del corvo femmina è replicata anche nella scultura che introduce al video. L’opera non è solo presagio di un’apocalisse ma un invito a ripensare positivamente ai valori della vita umana per ricominciare. Il concetto della ripartenza l’artista lo mette in luce anche in due scatti fotografici presenti in mostra, uno, This is the end, riguarda un ghiacciaio della Patagonia in fase di scioglimento e l’altro è tratto della performance Impronte nel quale l’artista è adagiata in terra quasi a voler assorbire l’energia che da essa scaturisce in una sorta di simbiosi.
La fotografia Il giorno in cui proposta da Bianco & Valente (Giovanna Bianco, Latronico (PZ),1962 e Pino Valente, Napoli, 1967) è tratta da un atto performativo da loro realizzato a Minervino di Lecce con il quale veniva focalizzato che l’allontanamento tra singoli nel corso del tempo, porta all’indebolimento della collettività e quindi il bisogno di contrastarlo.
Parallelamente è presente in mostra anche il video Entità risonante del 2009 nel quale è evidente la fluidità della comunicazione dato che la scrittura intesa come codice di trasmissione umana del pensiero può generare rapporti di comunità.
L’atto creativo di Silvia Listorti (Milano, 1987) è come perdersi dentro uno spazio, sospesi nel tempo, e generare l’opera come un respiro di tutto il corpo che si apre a sonorità date da poesia e musica. Nei disegni su carta di riso – Illocazioni cioè l’essere in nessun luogo e ovunque nel respiro del mondo – i leggeri tratti di grafite sembrano realizzati sul foglio-spazio in uno stato di dormiveglia, mentre Nel respiro dell’ora (and all is always now) – titolo tratto da un verso di T.S. Eliot – è dato da una valva che si apre adagiandosi sulla terra, ma che lievita verso l’altrove.
Cristina Gozzini (Firenze, 1960) propone, invece, una ricerca su ciò che nella natura sta sottotraccia e in cui quel ‘niente’ diventa misura e struttura di ogni cosa. L’artista in (A Step) Out Of Me crea un’installazione con elementi molto diversi tra loro in natura (la traccia della struttura calcarea di una foglia che intrattiene la memoria dei ghiacci, il vetro che coagula lo spazio del respiro all’interno di un bacino femminile): si ottiene così una sfida verso l’impossibilità di controllo della materia e della forma. La scatola a raggi X in cui sono contenuti gli oggetti suggerisce una riflessione sull’antropocentrismo e sulla rinuncia dell’antropocentrismo.
Il lavoro di Chiara Bettazzi (Prato, 1977) parte dall’idea di trasformazione che l’artista sviluppa come un unicum, sia quando l’opera assume la forma di installazione sia quando viene utilizzata la fotografia. Gli oggetti di natura organica e inorganica rimandano a un immaginario che sovverte la loro funzione primaria per diventare memoria personale e dei luoghi in cui l’artista interviene. Nella fotografia Still Life gli elementi (tessuti, materie plastiche, ceramiche, bicchieri in vetro, piume e un piccolo cervo) sono stati disposti su un tavolo in posa e sedimentano prima della loro sovversione. Nel ciclo Spostamenti la mano nel suo atto di spostare e muovere assume una dimensione performativa e dà vita a nuove immagini.
Gli still-life di Chiara Bettazzi si possono mettere in dialogo con quelli di Bertozzi&Casoni (Giampaolo Bertozzi, Borgo Tossignano, Bologna, 1957 e Stefano Dal Monte Casoni, Lugo di Romagna,1961 – Imola, 2023) poiché anche per loro la composizione è il fulcro del lavoro: si hanno così opere insolite in ceramica policroma meticolosamente studiate, nelle quali l’ironia si associa a elementi emozionali.
L’apparente marginalità e fugacità delle cose di tutti i giorni sta alla base del loro lavoro; si tratta di una riflessione sul quotidiano, sul senso di transitorietà che accompagna l’esistenza umana, aprendo un dialogo sulla sofferenza e la morte, ma anche sulla gioia e la rinascita.
Se nella galleria pistoiese la collettiva propone opere appositamente scelte per dialogare tra loro in un percorso variegato e complesso, a Villa Rospigliosi Antonio Fiorentino contestualizza le proprie opere nel giardino e negli antichi annessi agricoli creando un focus su quanto esposto in galleria.
I materiali naturali sono parte integrante delle opere che costellano il prato davanti alla villa, sono sculture nelle quali gli ossidi abbinati alla sabbia diventano carne e le ossa unite al cemento e alle resine diventano corteccia.
All’interno degli spazi espositivi ancora due sculture uomo/albero, una di queste sulla testa ha della cera (candele) a rischiarare una sala che è un omaggio alle luci e le ombre delle sue cianotipie.
Si tratta di una serie di opere nelle quali il corpo dell’artista è il protagonista, una serie di autoritratti astratti in cui l’intensità del colore ciano è lo specchio delle condizioni in cui la luce batte sul corpo nei differenti momenti della giornata.
Nel secondo ambiente si ripresenta il tema del doppio, infatti qui cinque maschere (archetipo identitario) sono poste in modo asimmetrico sulle pareti quasi in modo casuale. Se nella prima sala la luce scolpisce i ritratti qui la maschera si pone come l’altra faccia dell’artista. I consueti materiali vanno a costituire una seconda pelle, la faccia magica dell’artista. La maschera è dunque il simbolo di trasformazione poiché tutte le metamorfosi hanno qualcosa di misterioso e di recondito.