“Il sole allo Zenit” a quattro zampe: un viaggio tra i legami speciali degli artisti con i loro cani, esplorando l’influenza che i quadrupedi hanno avuto sulle opere
Ed eccolo lì che mi guarda, come se stessi abusando della sua pazienza o levassi tempo alla solita passeggiata. Succede ogni volta che mi siedo alla scrivania con il portatile aperto, come se già sapesse che non mi alzerò per parecchio tempo. Lui è il mio Labrador. Mi chiedo come faccia a lavorare William Wegman, il fotografo dei cani, noto per aver immortalato i suoi vari Weimaraner in pose e vesti strane, e chissà quale addomesticante potere deve aver avuto per scattare Slightly, nel 1999, con i fiori gialli a coprire gli occhi del quadrupede, o Contact, del 2014, con il bracco in equilibrio precario sul triplice piedistallo. Il primo cane l’aveva chiamato Man Ray e con lui era partita una lunga e fruttuosa collaborazione che rese celebre nel mondo dell’arte l’animale per la sua accattivante figura impassibile. Quando Man Ray morì nel 1982 fu addirittura nominato “Man of the year” dal Village Voice e fu solo quattro anni dopo che Wegman si disse pronto per un nuovo amico chiamato Fay Ray, in onore del predecessore, che segnò l’inizio di un’altra cooperazione. Con la nascita della cucciolata di Fay, nel 1989, il cast di Wegman crebbe a dismisura fino a includerne la prole con Crooky, Chundo e Battina, che più tardi diede vita a una nuova dinastia: Chip, figlio di Battina, nel 1995; Bobbin, figlio di Chip, nel 1999, e Penny, figlia di Candy e Bobbin, nel 2004. Spero di non aver tralasciato nessuno e per correttezza segnalo che oggi Wegman vive tra New York e il Maine, e continua a dipingere, disegnare, realizzare video e scattare fotografie con Flo, l’ultimo arrivato. Più facile e meno ambiziosa fu invece la vita dello splendido collie di Richard Hamilton che viene ricordato comodamente appollaiato (si potrà dire?) sul sedile del passeggero, scarrozzato come copilota sulla Porsche 911S 2.4-Litre Coupé del 1973, guidata da casa fino all’atelier per le vie di Henley-on-Thames. Ben altre mire aveva invece Airily, il magnifico Golden Retriever che apparteneva a Dan Flavin, l’artista minimale, che gli dedicò pure una grande installazione. Con il suo manto splendente e luminoso (c’era da aspettarselo) partecipò e vinse diverse competizioni ricevendo il miglior voto di sempre negli Stati Uniti.
Cosa avrà invece previsto la sorte per Orson e Sparky non (mi) è dato sapere, letteralmente entrati in scena zampettando davanti alla telecamera di Martin Creed nel 2011 a ritmo di batteria punk low-fi, creando un siparietto assurdo e meraviglioso dovuto anche alle taglie visibilmente sproporzionate dei due attori improvvisati. Mentre Giorgio de Chirico si prese molto a cuore la situazione canina mantenendo una vera e propria colonia nella sua villa romana di via Misurina dove, insieme a alla moglie Isa, ospitava amorevolmente più di venti amici. Del resto, poco prima del 1960, per una conferenza, pare avesse scritto un lungo discorso in loro difesa sostenendo che “la protezione degli animali è, prima di tutto, una espressione di civiltà. Più un Paese è civile e più si manifesta in esso, spontaneamente e naturalmente, il senso del dovere che incombe all’uomo e, per l’appunto, all’uomo civile, di proteggere e difendere i deboli. Nella categoria dei deboli stanno anzitutto gli animali, che sono esseri dipendenti esclusivamente dalla volontà dell’uomo. Questo non bisogna dimenticare. La protezione dei deboli non è soltanto una prova di bontà, ma ancora più una prova di educazione morale”.
L’amore di de Chirico per i cani nacque al tempo dell’infanzia, tramandato dall’amato padre Evaristo, che “odiava l’ingiustizia, amava gli animali, trattava altezzosamente i ricchi ed i potenti, ed era sempre pronto a difendere e ad aiutare i più deboli ed i più poveri” ma soprattutto dal primo cane avuto, Leone, poi ribattezzato Trollolò, tristemente ucciso per una leggerezza dei domestici di famiglia, come ricorda Giorgio nelle sua lunga Memoria: “Durante l’ultimo nostro soggiorno a Kefissia ebbi un grande dolore; il nostro cane, il nostro buon Trollolò, che avevamo lasciato ad Atene in casa, con i domestici, era sparito. Di solito lo prendevamo sempre con noi in campagna, all’albergo, ma, quella volta, non so perché, lo si lasciò in città. Girando fuori di casa era stato raccolto dall’accalappiacani e poi ucciso; e quegli ignobili domestici, sul capo dei quali invocai la maledizione divina, non fecero nulla per salvarlo. Quando tornammo dalla villeggiatura ed io non trovai Trollolò, fui preso da un grande dolore e da una grande disperazione e passai una notte insonne piangendo e pensando a quella cara bestiola”.
Anche Picasso tenne con sé diversi amici quadrupedi. Ai tempi di Dora Maar c’era il Levriero Afghano che si chiamava Kasbek che Pablo portava in spiaggia insieme all’immancabile bottiglia di Sherry. Ma l’elenco è lunghissimo: Frika era una meticcia che Picasso e Fernande Olivier tennero inizialmente al Bateau-Lavoir tra il 1904 e il 1909 circa, e che fu accompagnata per un periodo da Gat; Sentinelle fu un altro cane di cui Picasso si prese cura anche se in realtà era del collega André Derain; Noisette fu un Airedale, razza molto apprezzata dagli intellettuali francesi dell’epoca, portato in un viaggio anche Barcellona nel 1933; Ricky, che risale al decennio successivo, appartenne a sua figlia Maya ed era un bellissimo Barboncino. Yan, il Boxer, stette con lui a Cannes negli anni ’50 e fu succeduto da Lump, un Bassotto arrivato con l’amico fotografo e giornalista David Douglas Duncan. E poi ci furono due Afghani: Kaboul, che negli anni ’60 visse a Vauvenargues e a Mougins, e che fu poi raggiunto da Sauterelle.
Lump fu però l’unico cane che Picasso tenne in braccio, almeno secondo quanto viene trasmesso, come riporta Duncan in un libro fotografico a lui dedicato. Una mattina di primavera del 1957, il fotografo si recò infatti a Cannes per far visita allo stimato pittore. Seduto accanto al fotografo, copilota della sua Mercedes Gullwing 300 partita da Roma in cerca d’avventura, c’era proprio il suo fedele cane sproporzionato dal manto lucido. Pur essendo molto legati l’uno all’altro, dato lo stile di vita nomade di Duncan e la difficoltà di Lump di convivere con l’altro cane posseduto, il Bassotto si fermò a vivere a villa La Californie con Picasso, finendo immortalato su un piatto dipinto dall’artista il giorno stesso del loro incontro e su numerosi dipinti ispirati al capolavoro Las Meninas di Velázquez, posando in primo piano al posto del cheto cane spagnolo. Lump restò al fianco di Picasso per sei anni fino a quando, nel 1963, una malattia lo obbligò a sottoporsi a consistenti cure veterinarie e a tornare in Germania, proprio grazie a Duncan, che gli evitò una sorte che sembrava ormai storta. Riuscito a sconfiggere il male che lo affliggeva, Lump non tornò però più nel sud della Francia e morì subito dopo Picasso, a una settimana di distanza. Ma dopo essermi abbandonato a tali lungaggini, volgo lo sguardo al mio mammifero sagittabondo e adesso proprio non ci scappo: lo accarezzo e lo porto a spasso.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni