In ogni lavoro di Silvia Vendramel c’è una componente di sorpresa che per l’artista è vitale. Ne parliamo in questa XXXIV puntata di Progetto(s)cultura.
Dove sei nata e dove vivi?
Sono nata a Treviso e da pochi anni mi sono trasferita sulle colline liguri vicino al confine con la Francia.
Quando e come è nato il tuo interesse per l’arte?
Sono cresciuta in una famiglia di appassionati d’arte, mio padre stesso ha fatto studi artistici frequentando brevemente l’Accademia per poi dirigersi verso la moda. Ho visitato biennali, mostre e amato l’arte fin da piccola.
Che studi hai fatto?
Dopo aver frequentato il Liceo Artistico di Treviso, mi sono iscritta alla Villa Arson di Nizza, dove non era necessario scegliere un indirizzo preciso ma si potevano fare esperienze con vari media a seconda del progetto; questa fu la ragione per la quale mi iscrissi lì e non a Venezia. Nata come centro di ricerca negli anni ‘70, la Villa Arson, centro espositivo e scuola d’arte insieme, permette agli studenti di essere fin da subito in stretto contatto con il mondo dell’arte.
“L’arte”, hai dichiarato in un colloquio con Gabriele Landi, “è sempre stata fonte di forti emozioni, una sorta di innamoramento reiterato che ha acceso poi la tua curiosità di andare sempre più in profondità per scovare l’origine del tutto”. C’è stato, negli anni, un incontro, un evento da cui ti sei sentita intimamente trasformata?
Siamo esseri in continua trasformazione e le occasioni di cambiamento e adattamento sono continue. Ho vissuto in diversi luoghi e Paesi, cambiando casa, studio e lingua varie volte. Il mio è un lavoro che si serve e si nutre dall’interno del suo intorno. Osservo e utilizzo i materiali presenti dove vivo e me ne servo come specchio/filtro per elaborare le contraddizioni che noto. Una delle occasioni in cui l’esigenza di cambiamento si è fatta sentire con maggior urgenza si è concretizzata durante la residenza Cartografia sensibile 2022, (C.A.R.S.) curata da Lorenza Boisi e svoltasi all’interno dell’ex fabbrica di giocattoli Faro. Osservando la vastità del materiale disponibile all’interno della fabbrica, alcuni stampi in metallo adoperati per la fusione di parti di giocattoli hanno dato forma ad una serie di stampe a secco. La sfida è stata quella di tradurre la durezza ed il carattere tagliente del metallo in delicati bassorilievi di carta. La forza del torchio genera tracce che trasformano l’oggetto in memorie aprendo nuove piste all’immaginazione. Sono opere che si fanno scorgere quando la luce lo vuole, si lasciano scorgere solo a tratti. Da tempo cercavo di dar forma a una sorta di silenzio visivo ma non sapevo ancora come, cercavo una via di fuga al caos, all’invadenza della cultura digitale.
Il tuo approccio al reale – correggimi se sbaglio – è sempre laterale: ami procedere dai margini, dai bordi, avvicinandoti agli oggetti di cui intendi svelare sensi ancora nascosti in modo graduale.
Sì, il mio rapporto con la realtà è problematico, come per tutti gli artisti direi. Nel mio lavoro faccio emergere elementi antagonisti condensando brutalità e fragilità insieme. Gli oggetti ed i materiali che utilizzo sono spesso ordinari, mi interessano l’azione del tempo che lascia tracce indelebili, il contesto dal quale sono prelevati e quello a cui sono destinati. Se gli elementi che utilizzo sono spesso lasciati nello stato in cui li trovo, nella fase di elaborazione mi interessa una certa ambiguità visiva che, come tu dici, provoca un avvicinamento graduale, un rallentamento da parte di chi osserva. Fausto Melotti nel suo libro Linee afferma: “L’ambiguità come aspetto della melanconia è componente qualificante dell’opera d’arte”.
Michelangelo cercava l’idea dentro il blocco di marmo ed eliminava la materia in eccesso. Nei tuoi Soffi, al contrario, l’opera è, in un certo senso, ciò che eccede: il vetro che, al limite della tensione, si tende oltre lo scheletro, oltre l’anima metallica che lo chiude e lo sostiene.
Sì, in termini classici si potrebbe dire che i Soffi sono generati per via di porre. Si tratta di un ciclo nato dalla reazione al senso di appartenenza. Parto da suppellettili decorative in metallo appartenute alla mia famiglia, che taglio a pezzi e saldo in modo da creare un vuoto dentro al quale faccio espandere il vetro gonfiandolo fino al limite del collasso. Nel suo farsi, la scultura subisce uno sviluppo autonomo generato dalla costrizione che la struttura in metallo imprime al vetro. La reazione tra i due materiali antagonisti crea un’unità nuova e indissolubile.
Il potenziale celato all’interno della materia è stato oggetto di vari lavori. Sono attratta dagli scarti, dalla fragilità di oggetti che hanno subito trasformazioni involontarie, spesso elementi di piccolo formato lasciati alla deriva dove il mio intervento consiste nel rivelare, proteggere, offrire un’altra opportunità. Il soggetto di Gesto bianco per esempio, è uno scarto di materiale sintetico di colore nero che ho trasposto e ingrandito in marmo bianco. Resta con l’aria è una fusione diretta in bronzo il cui soggetto è una bellissima escrescenza di poliuretano creatasi autonomamente. Il peso del metallo massiccio prende il posto della leggerezza del poliuretano ribaltando il concetto di scarto.
Il vetro soffiato è solo uno degli ambiti in cui ti sei esercitata. Ti va di parlare di qualche altro tuo progetto, ad esempio dei Frammenti e di Corale?
Di solito procedo per cicli, scelto il soggetto, mi metto alla ricerca della tecnica adeguata per rispondere al materiale incontrato; questo implica una ricerca tecnica e formale ogni volta nuova. Nella serie Frammenti, il soggetto della vasca da bagno, già utilizzato in altre occasioni, ritorna come metafora della cura del corpo stabilendo un dialogo formale e intimo con lo spazio. Come un preludio al ciclo di stampe a secco, la necessità di silenzio visivo era già presente. Seppur con una certa esuberanza, anche questi sono lavori basati sull’incidenza della luce e sul rapporto tra concavo e convesso.
Non mi sono mai appassionata ad un’unica tecnica, mi interessano tutti i metodi di produzione che siano industriali, artigianali, antichi o attuali. L’ambito della fonderia come quello del vetro mi attraggono per la loro relazione al fuoco ed al passaggio dallo stato liquido a quello solido. Per anni ho frequentato le fonderie attratta da tutte le elaboratissime fasi di realizzazione dei manufatti, è interessante osservare come una tecnica così antica non abbia subito variazioni rilevanti nel tempo. Il mio approccio alla fusione in bronzo è sempre stato periferico: mi affascinano gli aspetti tecnici del processo di fusione più che il risultato finale.
Quali sono gli artisti e le opere che più ti hanno ispirato?
Il primo, quando ero ancora al Liceo, è sicuramente Fausto Melotti, poi ce ne sono stati tanti altri; nei primi anni Novanta guardavo molto la scena inglese degli anni ’70/’80: Anthony Caro, Tony Craig, Anish Kapoor, Richard Deacon, Bill Woodrow, l’americano David Smith, il messicano Gabriel Orozco… Tutta scultura destrutturata, basata sulla rivisitazione del frammento. Poi mi sono accorta dell’assenza delle voci femminili e allora c’è stato tutto un altro modo di guardare e di capire la scena culturale e le sue gerarchie. Eva Hesse e Louise Bourgeois hanno contato molto. J. D. Salinger letto da adulta, William Faulkner, Wislawa Szymborska sono stati determinanti. Come vedi ho bisogno di variare. Jean Cocteau afferma: “ho saltato di palo in frasca, sì, ma sempre sullo stesso albero. Questa dichiarazione la faccio mia!
Hai mai avuto dei momenti di crisi durante il tuo percorso artistico? Come li hai superati?
Ci convivo. Credo possa essere comparabile all’accettazione di una patologia.
Nel 2015 con Elena Carozzi, Beatrice Meoni, Phillippa Peckham e Maja Thommen hai dato avvio a un progetto, durato un paio d’anni, basato sulla condivisione dei rispettivi linguaggi. Cosa ricordi di quella esperienza?
È stato un esperimento nato da una sincera necessità di condivisione; cinque artiste con pratiche diametralmente opposte che volevano crescere, mettersi in gioco, aprire strade percorribili solo insieme. Un fallimento, direi, ma finché è durato lo spirito di ascolto, è stato bellissimo.
L’anno dopo, nel 2016, hai esposto con Adi Haxhiaj, un giovane pittore: creatività è per te sinonimo di condivisione?
Non direi, sono una solitaria, molto pudica nel momento della creazione.
Che cosa pensi dell’arte italiana di oggi?
Non ho un’idea unitaria dell’arte italiana, confrontandola con la scena francese che mi è vicina, direi che certi retaggi storici ci limitino. In generale percepisco una scena frammentaria fatta di individualità distinte seppur valide. Purtroppo l’Italia continua a non voler riconoscere l’arte contemporanea come potenziale culturale, lasciando i suoi artisti all’ombra dei cosiddetti Maestri. Per quanto riguarda la scena italiana e non solo, c’è di buono che le artiste stanno finalmente aprendosi un varco nella roccaforte maschile. La strada è ancora lunga ma il cambio è inesorabilmente in corso.
In un mondo turbato dalla sopraffazione e dalla guerra, quale ruolo attribuisci alla tua arte?
Tutta l’arte è politica, non c’è dubbio. L’arte implica una scelta di vita così dura e privilegiata che non può non fare i conti con la politica, la storia e la società. Detto questo, mi trovo assolutamente in linea con il pensiero di Carole Talon-Hugon in L’arte sotto controllo. Copio e incollo: “C’è un virus che si propaga nel mondo dell’arte…, il politically correct. Ha la forma di un potere tirannico e moralista che attecchisce a biennali, festival e a manifestazioni culturali sempre più consacrate a tematiche antiglobaliste, ambientaliste e femministe… Abbandonata ogni velleità provocatoria ed eversiva, oggi l’arte si fa vessillo delle lotte sociali e l’artista si lascia avviluppare da una critica buonista… Non ho mai apprezzato la militanza, penso che Calvino attraverso Cosimo riesca nei suoi intenti meglio di un anarchico, il potere dell’arte non è la teoria. Natalia Ginsburg ed Elsa Morante (scrittrice) muovono montagne! La prima scarnifica il sistema patriarcale passando dalla porta dell’affetto, la seconda riesce a mettersi nei panni di un uomo omosessuale narrato in prima persona. Questo è ciò che a mio avviso muove coscienze”.
C’è una meta che desideri raggiungere, un tuo limite che vorresti superare?
Poter continuare, questa è la mia meta. Per quanto riguarda i limiti, vanno accolti, resi leve, resi punti di forza. C’è da lavorare!
A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
Sto lavorando principalmente con la tecnica della stampa a secco; approfondisco questa nuova via che mi permette di agire con maggior leggerezza. Come ogni tecnica necessita di essere esplorata, compresa nelle sue potenzialità. Sperimento utilizzando matrici di natura diversa che spesso richiedono un grosso lavoro di preparazione. Il torchio ha la capacità di azzerare le tracce quindi, ancora una volta, si tratta di mettere in gioco forze avverse. Come nel lavoro dei Soffi, c’è una componente di sorpresa che per me è vitale: l’incanto della scoperta. Non è la mera traccia ad interessarmi, la tecnica di stampa porta in superficie il senso della memoria in quanto registra l’oggetto ma il mio intento è di spostarmi dalla realtà raggiungendo quanto detto sopra, la realtà è uno strumento il fine è un altro.