Ogni società, spiega il filosofo Vilém Flusser, «è una rete che ha la funzione di produrre informazioni e di trasmetterle affinché vengano conservate nella memoria. Il discorso è il metodo grazie al quale le informazioni vengono trasmesse, e il dialogo è il metodo grazie al quale le informazioni vengono prodotte» (Vilém Flusser, Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo. Traduzione di Salvatore Patriarca. Fazi, Roma, 2009). Dal dialogo e non dal discorso, tantomeno dal monologo, nasce nuova conoscenza. Ed è questo, mi sembra, uno dei motori del lavoro di Maria Calderara degli ultimi anni: pensare, creare, produrre dentro a una dimensione di dialogo.
Il lavoro di Maria Calderara consiste nel creare una collezione di abiti – Maria è una designer – a partire dalle suggestioni e formali e concettuali che le derivano dalle opere di altri artisti. Dopo aver dialogato con, tra gli altri, Gianni Pettena, Luca Maria Patella, Antonio Scaccabarozzi, Eugenio Tibaldi, Calderara ha deciso di conversare con Piero Manzoni, un artista importantissimo, ampiamente studiato, oramai entrato nel canone e di cui crediamo di sapere tutto. Manzoni è saldamente classificato, e a ragione, come artista concettuale, con tutto quel che ne consegue: riferimenti a una genealogia, a un contesto culturale, a uno stile filosofico e formale, ecc. È una definizione, “artista concettuale”, lapidaria che probabilmente rinchiude Manzoni in una cornice troppo stretta e non restituisce la freschezza e la complessità della sua opera e del suo pensiero.
Per promuovere la collezione, Calderara ha prodotto dei materiali: un catalogo, o meglio, una brochure e un video, in cui si vede una giovane modella indossare con leggerezza e disinvoltura gli abiti ispirati alle opere di Piero Manzoni. Così vediamo dei plissée e dei pattern su tessuti che richiamano esplicitamente certi Achromes, anelli e collane che elaborano la celebre impronta di Manzoni o dei motivi presi dalle 8 Tavole di Accertamento e da una Linea, o la riproduzione della mano dello stesso Manzoni che appone la propria firma. Le foto e il video sono riprese in ambienti neutri, luminosi e spesso di un bianco quasi abbacinante, ambienti perfettamente manzoniani, sullo sfondo, a fare da controcanto agli abiti, si vedono alcune opere di Manzoni (in prestito dalla Fondazione Piero Manzoni, complice dell’operazione).
La presenza delle opere è, dunque, un invito esplicito a lèggere gli abiti di Maria Calderara alla luce dell’opera di Piero Manzoni. È però anche possibile rileggere Manzoni alla luce della lettura di Calderara. Questo lèggere e rileggere – questo dialogo – può portare a nuovi punti di vista e a delle sorprese.
Dell’opera tecnicamente e poeticamente estremamente varia – per la precisione si deve scrivere “transmediale” – di Manzoni, Calderara rielabora alcuni nuclei di immagini, in primo luogo gli Achromes, per me, i lavori più intensi, difficili ed emozionanti del corpus manzoniano: superfici bianche, di un bianco bianchissimo, un bianco, scrive Elio Grazioli «inteso come non-colore, non più come monocromia dunque, ma come annullamento, svuotamento, negazione, rifiuto di tutto ciò che il colore ha significato fin lì, ovvero psicologia, sensazione, pittoricità, simbolismo» (Elio Grazioli, Piero Manzoni. Bollati Boringhieri, Torino, 2007). Negli Achromes scompare tutto quello che ci si aspetta di trovare in un quadro: iconografia, racconto, emozioni, resta solo l’immagine per quello che è, immagine in sé, con le parole dello stesso Manzoni: «Qui l’immagine prende forma nella sua funzione vitale: essa non potrà valere per ciò che ricorda, spiega o esprime (casomai la questione è fondare) né voler essere o poter essere spiegata come allegoria di un processo fisico: essa vale solo in quanto è: essere» (in Oggi il concetto di quadro… prolegomeni, testo del 1957. In Piero Manzoni, Scritti sull’arte. Abscondita, Milano, 2013).
Gli Achromes sono questo, sono come immagine emendata da se stessa. Tuttavia, la lettura di Calderara porta in superficie un aspetto che non avevo mai notato e cioè l’evidente, esplicita e straordinariamente paradossale dimensione “decorativa” degli Achromes. Così ora vedo in ogni Achromes – nella disposizione dei pochi elementi: tassellature, increspature, accostamenti e addizioni – affiorare un gusto per la ripetizione, per l’intreccio e la creazione di pattern tipico dei motivi ornamentali e colgo come il ritmo, l’annodarsi delle pieghe dei tessuti imbevuti di caolino o gesso ha, in alcuni pezzi, la morbidezza di un fregio settecentesco.
Ogni volta che si accostano i termini “decorativo” e “concettuale” si commette un errore, me ne rendo conto, l’amore per la superficie e per la sensazione intrinseci alla dimensione decorativa sono perfettamente contrari alle tensione smaterializzante dell’approccio concettuale alla forma. Ma in Piero Manzoni (a differenza degli artisti a lui vicini come Castellani, Bonalumi, Scheggi o degli artisti concettuali tedeschi o inglesi, impregnati di un calvinismo raggelante) c’è sempre, e soprattutto negli Achromes, un gusto per il carattere tattile della materia e una sensibilità per le superfici che non si possono ridurre all’ascetismo concettuale che ci si aspetta. Questo calore particolare e davvero unico arriva a Manzoni forse anche grazie all’influsso di Lucio Fontana, genio barocco, di cui probabilmente ha compreso meglio e più intimamente di altri la lezione.
La sensibilità ornamentale è colta con precisione e declinata da Maria Calderara nella combinazione dei tessuti e delle lavorazioni – tagli, pieghe, increspature, intarsi e sovrapposizioni – in un gioco di mescolamento improntato alla leggerezza e all’ironia. Ed ecco apparire un altro aspetto essenziale della poesia di Manzoni: la particolare inclinazione all’ironia (ironia duchampiana, ovviamente), perfettamente assente in ogni opera riconducibile allo “stile” concettuale, un’ironia che rende senza eguali Manzoni e lo fa splendere tra il bianco-e-nero degli artisti della sua generazione.
Calderara, si è detto, ha preso alcuni elementi dall’iconografia manzoniana – e senza tanto sforzo, Manzoni “impaginava” le proprie opere con nitidezza ed eleganza, riducendo ogni segno alla purezza e alla precisione dell’icona –, li ha isolati ed elaborati graficamente costruendo un alfabeto con cui declinare il proprio discorso mescolandoli con i segni e le forme che le sono propri in un gioco leggero e fantasioso. In questo gioco di ricombinazioni e scambi emerge un altro aspetto su cui non avevo mai riflettuto. Guardando il video, osservando la modella indossare gli abiti, camminare, sedersi, salire e scendere da una Base magica, danzare, prendere un uovo, affettarlo e mangiarlo ho visto (non semplicemente immaginato, ma proprio “visto”) tutto il movimento che c’è nell’opera di Piero Manzoni.
Sino ad oggi, nel mio sguardo, nel mio modo di percepirle, le opere di Manzoni sono state come bloccate nella fissità del documento e invece in ognuna è racchiuso il movimento incessante da cui hanno avuto origine o a cui tendono. E ora lo vedo, Piero Manzoni, che corre per un corridoio tracciando la sua linea, lo vedo che salta su una delle sue Basi, che gonfia palloni, e misura e pesa, e insegue i corpi vivi delle persone per firmarli, e timbra e sbuccia e prende e mangia… tutte le opere di Manzoni vibrano di movimento, finanche quel Socle du Monde sulla cui immobilità poggia la terra intera, minuscola sfera lanciata a una velocità addirittura inconcepibile nel vuoto dello spazio, su cui brulica una vita frenetica, altrettanto inconcepibile.
Lontano dalla razionalità calcolatrice del concettuale nordico e di molte esperienze di quello italiano che hanno nella fissità il perno per un pensiero acuminato e profondo, Manzoni è mobile e duttile, non solo nella transmedialità eccezionale (movimento incessante anche questo, da una tecnica a un’altra a un’altra ancora) ma nel modo in cui la materia che maneggia si muove in se stessa e si trasforma e sublima – gli Achromes, in questo, sono esemplari. Sembra che senza il movimento Manzoni non possa creare, pensare, vivere. Di questo mi sono reso conto quanto nel video ho rivisto la mano dell’artista firmare i pantaloni bianchi indossati dalla modella – cioè un corpo vivo e mobile – sottratta all’immobilità della fotografia e finalmente restituita al movimento.
Maria Calderara interpreta perfettamente il senso di questo movimento perpetuo, inesausto, vitale di Piero Manzoni chiamando la sua collezione Touch4, dove il “tocco” non è altro che il punto di arrivo di un movimento, di un gesto; il risultato di uno sporgersi, di un avanzare; il traguardo di ogni incontro, il premio di ogni dialogo.
La collezione #TOUCH SS25 di Maria Calderara sarà presentata con una mostra allo allo SPAZIO maria calderara di Milano, in via Lazzaretto 15. A fianco della nuova collezione saranno esposti un nucleo di quadri di Piero Manzoni per un progetto curatoriale in stretta collaborazione con Rosalia Pasqualino di Marineo, direttrice della Fondazione Piero Manzoni. Inaugurazione martedì 17 settembre ore 18.30, visibile fino a 1 ottobre. Orari: da martedì a sabato, ore 16.00-19.30. (press preview: martedì 17 settembre, ore 9.30-13.30). Ingresso libero