Specchi e illuminazioni, quali sono i più brillanti del reame? Ci pensa questa 27ma puntata de Il sole allo zenit a fare lucida chiarezza, sparigliando le carte tra antico e contemporaneo, letteratura e visivo, nel complesso gioco degli incastri di senso
4321 e le vacanze son finite. In realtà 4321 è uno dei libri che ho letto quest’estate. L’autore è Paul Auster e il succo del lungo narrativo discorso è che il protagonista di nome Archie vive quattro vite in parallelo, ovvero uno sliding doors letterario ben scritto e dal variabile esito: giornalista in uno, campione sportivo nell’altro, attivista nel terzo e scrittore nell’ultimo. Tutte le vite incredibilmente incontrano però Amy, e qui stanno la poesia, il fato o la fatalità del romanzo, e parte del suo meritato successo. Non è come nelle favole russe nelle quali bisogna rifare le cose tre volte per raggiungere lo scopo, ma è come se fossero quattro libri insieme, riuniti in un testo unico. Avendone apprezzato l’originale approccio ed essendo anch’io dotato di neuroni specchio, ho pensato di fare circa lo stesso riunendo quattro documenti word sparsi sul mio disordinatissimo desktop, in modo da liberarmi dall’affanno di scrivere testi che alla fine proprio non riescono.
Il primo file s’intitola appunto Specchio Riflesso e analizza gli specchi nell’arte o quantomeno quelli che preferisco. Quello di Manet, ad esempio, nel Bar famoso delle Folies-Bergère, che è una sorta di testamento del maestro ormai stanco che dà prova di bravura ma lascia forse intendere che l’arte sia ormai mercificata e data in pasto alla folla festosa, come la paffuta e malinconica ragazza in primo piano sembra confermare servendo da bere controvoglia all’elegante corteggiatore che solo il riflesso ci permette di notare. E grazie a lui (lo specchio, non il farfallone) scorgiamo tutto il resto del locale, con lo sfarzoso lampadario, la signora con i guanti gialli e la trapezista con le scarpe verdi. Mentre Manet mette la sua firma tra gli alcolici, sull’etichetta della bottiglia rossa, come a dire: “bevetemi pure, ormai non m’importa”. Anche Diego Velázquez in quella teologia della pittura che è Las Meninas dà prova di maestria e consegna alla storia degli specchi una perla preziosa, ribaltando la scena e la solita trama. Il quadro viene infatti visto dalla parte di chi dovrebbe essere dipinto e ciò è reso noto proprio grazie allo specchio che restituisce Filippo IV e la moglie di fronte a un manipolo di persone che li guardano in posa, rubando loro la scena. E noi oggi sappiamo della larga gonna con guardinfante di Margherita, delle sue damigelle d’onore, della nana e del cane, e dei due Velázquez, Diego, pittore, e suo fratello José Nieto, ciambellano, che appare giù in fondo, sulle scale.
Stupor mundi per me sono invece I coniugi Arnolfini di Jan van Eyck che si palesano in uno dei miei dipinti favoriti, non tanto per lo specchio ma per i suoi mille simbolici significati. Ne elenco alcuni: il cane e gli zoccoli incarnano il motivo della fedeltà coniugale, l’unica candela accesa del lampadario a sei braccia simboleggia l’amore e la sua fiamma, le arance sono un augurio di fertilità, i vetri alla finestre (rarissimi per l’epoca) indicano la ricchezza della committenza, il colore verde della sposa rivela ancora floridità riproduttiva e la donna intagliata nella testiera del letto dovrebbe essere Santa Margherita, patrona delle partorienti, giusto per rimanere in tema e per non dimenticare che gli Arnolfini si stanno per sposare. In fondo alla stanza lo specchio mostra, per la prima volta nella storia, il retroscena del dipinto in cui compare anche l’artista stesso che nella cornice dà prova di bravura e minuziosità microscopica rappresentando in modo meticoloso gli episodi della Passione cristiana. Questo specchio piacque molto anche a Hans Memling che lo inserì nel suo dittico di Maarten Nieuwenhove. Formato da due comparti, in quello di destra raffigura Maarten inginocchiato con le mani unite mentre prega davanti a una Bibbia aperta e guarda dritto innanzi a sé adorando la Vergine che sta nell’altro pannello, con in braccio il bimbo. Lo specchio convesso rappresentato alle spalle della Vergine ha qui un’ulteriore mira e riflette un’immagine delle due figure affiancate, unendole insieme, con una brillante intuizione.
Il mio secondo file.doc si chiama invece Piogge Tótali e nasce dalla serie delle piogge di Endre Tót, artista che se l’è vista complicata nascendo nell’Ungheria comunista prima degli anni Quaranta. Produsse arte di nascosto con quello che aveva a disposizione e individuò nell’elemento piovoso un indicatore democratico che cadeva sia nei Paesi liberi, sia nelle dittature. S’inventò quindi una sorta di mail art contenente il simbolo della pioggia che serviva a comporre cartoline e scrivere lettere. Ripercorro velocemente alcune delle più belle, consultando il volume delle Rainproof Ideas dell’Edition Block: la pioggia orizzontale su una veduta di Venezia, quella che varia per intensità sull’immagine della Rue de Paris, temps de pluie di Gustave Caillebotte, quella nell’angolo sulla Madonna di Raffaello e quella divisa in My rain, your rain di una località anonima. Il tutto in un volume anticipato da un prologo piovoso che non include parole ma solo tanti “slash” indicanti la pioggia a ripetizione.
Il terzo testo che mi appare sullo schermo s’intitola Faccia di Bronzo e avrebbe voluto raccontare la tendenza di molti artisti a ricreare cose quotidiane in questo materiale nobile, resistente all’usura e alla corrosione, come a volerle premiare. E qui ricordo una cassetta della frutta di Francisco Tropa, (artista portoghese) che sembrava davvero di legno per il colore, ma sollevandola si arrivava presto a capire. Francesco Gennari ha reso invece bronzea la scorza d’arancia che s’intitola Non sarà mai più come la prima volta sottolineando in maniera surreale e inaspettata come il gesto di sbucciare la frutta sia sempre diverso, ricordandoci che la natura morta può anche essere viva se un’azione la completa. Giuseppe Penone ha provato a ingannare la nostra percezione fin dagli anni Ottanta trasformando alberi senza fogliame nel solito materiale a partire da matrici ricavate da alberi veri e adducendo una serie di infiniti significati, incluso un esagerato (a mio avviso) profondo legame che esiste tra la fusione e la crescita vegetale. E poi avanti con Mario Garcia Torres che cita l’autoritratto Mi fuma il cervello di Alighiero Boetti eliminando il collega e dando importanza alla canna dell’acqua resa in solitaria, o con La volpe, il topo e la cintura che sembra di creta, di Mark Manders, e tanto altro ancora che è meglio se m’interrompo altrimenti rischio l’elenco.
Il quarto è invece un testo a cui darò seguito di sicuro e che riguarda alcune opere che ai professionals dell’arte sono state donate e che nel corso del tempo sono riuscito a recuperare. Partendo dal fatto che un regalo di un artista a un critico o a un gallerista dovrebbe avere maggior importanza, essendo destinato di fatto alla stessa sensibile cerchia.
Tutti gli abbozzi di testo hanno in comune una passione che ricorre e che non si chiama Amy bensì arte, e un disordinato amore per gli appunti che prevede troppe note sparse e interrotte. Oltre ad essere un buon pretesto per omaggiare uno scrittore americano che proprio quest’anno ci ha lasciato. 4, 3, 2, 1 e testo finito.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni