Poche centinaia di metri dal proprio quartier generale, per andare decenni indietro nel tempo. Ecco “The Morbid Palace“, la collettiva secondo Pinksummer nell’ex Chiesa dell’Angelo Custode.
Pare che d’estate tra i vicoli di Genova si stia un po’ più freschi. E pare che girando, ovviamente nei posti giusti, si possano scoprire cose mai viste. Piazza Scuole Pie ha la prestanza del teatro di posa, con un impatto scenografico imponente ed estraneo alla mole di traffico umano di gran parte del centro storico, pur trovandosi ad un minuto (anche 30 secondi) dalla Cattedrale. Lì c’è la Chiesa del Santissimo Nome di Maria e degli Angeli Custodi. E noi siamo proprio in cerca di una chiesa. Che però non è quella, da schivare sulla destra per entrare in Vico Squarciafico, uno di quei caruggi tutt’altro che charmant. Se vivi a Genova, o la conosci abbastanza bene, tuttavia hai contezza di una cosa: mai mettere in dubbio il sacro D’André che cantava “dal letame nascono i fior”. E il nostro fiore è proprio lì, l’ex Chiesa dell’Angelo Custode dei Padri Scolopi, dove Pinksummer ha istituito il suo The morbid palace.
Un luogo seicentesco racchiuso in un palazzo di quattro secoli precedente; con una storia legata anche ai cambiamenti dell’Italia del secondo dopoguerra, passato dal culto al produrre energia elettrica come sede delle Officine Elettriche Genovesi (poi confluite nella nazionalizzata Enel) e successivamente rimasto chiuso per una settantina d’anni. È uno spazio raccolto, caratteristico almeno quanto non caratterizzato: quattro colonnine in marmo, grès rosso e cemento a vista sul pavimento, piastrelle in ceramica alle pareti e putrelle in acciaio che sulla testa intersecano la volta. Nel complesso nulla che ti permetta di dare una connotazione precisa a quello spazio. I decenni passati poi hanno fatto il resto, riconsegnandocelo nella polverosa veste post-umana che le galleriste Antonella Berruti e Francesca Pennone si sono sbizzarrite ad incrociare con un accurata selezione di nomi e relativi pezzi. “The morbid palace” è tecnicamente una collettiva, ma prima ancora un ambiente in cui ci si può aspettare di tutto. Anche alzare la testa e veder spuntare le teste di moro di Invernomuto in punti improbabili, come sentinelle (non vogliamo dire cecchini, ma potremmo) a custodia del luogo.
Principiare dalla partecipazione di Invernomuto potrebbe non essere criticamente ortodosso, e voi che leggete abbiatene coscienza almeno quanto siete pregati di farvene una ragione. Non per assecondare una qualche deriva autocratica del sottoscritto (anche perché “l’articolo è mio e lo gestisco io” è una semi-citazione poco efficace oggigiorno), ma in quanto quella presenza così infiltrante è utile a puntualizzare un progetto che, al contrario, conta molto su una visione paritaria tra contenuto e contenitore. “The morbid palace” si regge soprattutto sull’azione di scambio tra quello che Berruti e Pennone lì hanno trovato e quello che sono andate ad inserire. Ad esempio una tela di Jorge Queiroz, che interseca le fughe delle piastrelle con le sue righe orizzontali e gli schizzi di calce sulle stesse col colore. O anche una carta di Luca Trevisani, che per posizione scenica – centrale e rialzata sul fondo – e predisposizione cromatica – tono di terra – e composizione – una sovrapposizione massiccia di impronte di agrumi – offre una ricchezza concettuale e visiva perfettamente compatibile con le varie superfetazioni del luogo. O ancora un pezzo di Plamen Dejanoff (direttamente dalla sua recente personale in quel di Pinksummer, che se ve la siete persa eccola qui), ovviamente tinto in azzurrite e appeso con una cinghia giallo fluo ad una putrella che il suo giusto controcanto: pura espressione della ricerca (e relativo raggiungimento) di un dialogo reciproco tra opera e contesto. E, senza starvi a fare tutta la lunga lista dei nomi presenti, lo stesso discorso si può fare per quella delicatissima tenda/cortina di uova svuotate una ad una da Georgina Starr, il cui compito è dare nuovo ritmo alla navata unica, ricalcando la funzionalità delle colonne binate che dividono la navata stessa da un piccolo endo-nartece.
Sulla punta delle dita ci sono rimaste proprio due righe per quelle deliziose colonnine, tra gli elementi architettonici più caratterizzanti: non si può fare a meno di mettersi a “leggerle”, tanto sono ricoperte di scritte, numeri per calcoli di cui chissà, ma anche tracce interessanti come una firma datata al 10 ottobre 1947. Settantasette anni fa certificati nero su marmo, con tanti cambiamenti nel mezzo e la quasi certezza che quel Global terror impresso su lightbox, opera di Peter Fend, sia espressione di una contemporaneità valida per tutte le stagioni sociali.