Biglietti introvabili, un passaparola che ha bruciato i tempi fin dalla prima dello scorso 25 giugno: un entusiasmo pallpabile ha salutato la nuova produzione della Turandot di Giacomo Puccini con la regia di Davide Livermore e le scene di Davide Livermore, Paolo Gep Cucco ed Eleonora Peronetti per il Teatro della Scala di Milano. Una Turandot opulenta, sofistica e senza tempo ambientata in «una Pechino dark in 3D cinematografica e affascinante in realtà virtuali, con scenografie all’avanguardia, riferimenti agli stilemi manga e atmosfere alla Blade Runner», avevano anticipato gli organizzatori, prima ancora che il pubblico potesse immaginare cosa aspettarsi.
Davide Livermore e Paolo Gep Cucco ci hanno raccontato questa imponente e innovativa produzione nell’intervista qui sotto.
A dare vita alla nuova produzione della Turandot, replicata alla Scala fino a metà dello scorso luglio, l’orchestra diretta da Michele Gamba, i costumi di Mariana Fracasso e, come interpreti principali, Anna Netrebko – una delle voci più accalmate del momento – nel ruolo della principessa Turandot, Raúl Giménez in quello dell’imperatore Altoum, Vitalij Kowaljow come Timur, Rosa Feola per Liù, mentre il Principe Ignoto (Calaf) è stato portato sulla scena da Yusif Eyvazov (nelle sere del 25, 28 giugno e 4, 6 luglio) e Brian Jagde (9, 12 e 15 luglio).
La Turandot, una delle più rappresentate in assoluto e tra le più note al grande pubblico almeno per l’amatissima aria Nessun dorma, fu composta da Puccini a partire dal 1920, ma rimase incompiuta a causa del decesso del suo autore nel 1924. Fu rappresentata per la prima volta quasi cento anni fa, nel 1926, al Teatro della Scala di Milano, con l’orchestra diretta da Arturo Toscanini. Portava con sé il mistero che mai abbandonò quest’opera: quello della sua incompiutezza, attribuita da alcuni al progredire della malattia di Puccini, da altri alla difficoltà di risolvere degli aspetti legate alla trama. Fu Franco Alfano a darle il finale attuale, mentre varie fonti narrano di come, durante la prima rappresentazione Toscanini avesse interrotto lo spettacolo alla morte di Liù, punto in cui si conclude la parte completata da Puccini.
Avete presentato grandi opere come Aida, La Bohème e adesso Turandot con scenografie digitali nei più importanti teatri del mondo. Come è nata la progettualità che vi ha portato a unire grandi opere, grandi architetture e massima innovazione scenografica?
Paolo Gep Cucco: «Tutto parte da ciò che libretto e partitura richiedono: la narrazione e l’idea da cui il compositore è partito sono la base della riflessione sulla scena e sulla drammaturgia. L’opera non appartiene al passato ma è parte integrante del nostro essere italiani. Con l’opera abbiamo insegnato al mondo la simultaneità delle arti, ottenendo il primo esempio di “entertainment” che si è diffuso ovunque. Quindi da sempre l’innovazione fa parte del Dna dell’opera, oggi usiamo altri mezzi per ottenere lo stesso effetto di meraviglia che in passato potevano ottenere le scenografie sontuose o gli effetti speciali teatrali o sonori. Non dimentichiamo che siamo tutti figli del teatro greco, una delle più potenti macchine sceniche mai realizzate. L’idea di non avere confini ma di poter unire tecnologia, video, cinema, performance, scene digitali e reali è stata alla base della ricerca che abbiamo fatto in questi anni. Davide è uomo abituato a sentire le emozioni prima di tutto con le orecchie, io con gli occhi. Questo mix funziona perché lui è capace come pochi al mondo di mettere in scena le umane fragilità rendendole archetipiche, mentre io lavoro sull’estetizzazione dell’emozione. E se tutto è fatto come un grande gioco non ci si stanca mai di continuare a creare, sognare e desiderare trasformando tutto questo in arte scenica. E avere con D-wok la propria società di entertainment design ci ha portati a sperimentare sempre, a non fermarci mai nella ricerca di nuove strade».
In particolare, come avete lavorato per applicare questo tipo di innovazione alla Turandot di Puccini? Quali sono le caratteristiche peculiari del lavoro su quest’opera?
Davide Livermore: «Tutto è partito con un’idea registica che ho avuto all’inizio del lavoro, che era quella di rendere il rapporto tra Lou-Ling e Turandot una vera e propria possessione dell’ava sulla principessa. Quindi il mondo fiabesco di Turandot doveva avere con sé caratteristiche più dark, scegliendo di ambientarla in una Pechino di inizio ‘900. Da qui lavorando insieme a Gep, ad Eleonora Peronetti come co-scenografa e ad Aida Bousselma come aiuto alla regia sono nate le prime idee di come utilizzare lo spazio trasformandolo in narratore, un co-protagonista della storia. Una città reale, cupa e senza colore, che il Led moltiplica in profondità e fa evolvere nel tempo, un ponte che mette in relazione il mondo “alto” di Turandot con quello “basso” del popolo, il colore rosso come elemento caratterizzante, ed un Led circolare semi trasparente che diventa magicamente sferico. Questo led è diventato un elemento iconico della scena perché è un microcosmo in rotazione che segue la storia diventando a volte pensiero interno, a volte rappresentazione dei sentimenti, a volte effetto visivo olografico o interazione tra reale e virtuale, come per esempio quando alla vera Lou-Ling dietro il led si sommano le immagini fantasmatiche dello schermo trasparente davanti a lei. Insomma, la scena è una somma di scenografia vera e sintetica, di tecnologia e artigianato, di virtuale e reale. Puccini lo si può solo amare totalmente, ed in quest’opera abbiamo voluto rendergli omaggio fermando lo spettacolo nel momento in cui si è interrotto il lavoro di scrittura a causa della sua morte. Al pubblico è stato dato un lumino da accendere per ricordare per sempre il genio creativo di uno dei più grandi compositori italiani».
A livello tecnico, quali sono le principali sfide di questo tipo di scenografie? Quanto tempo è necessario per realizzare questo tipo di scenografie? Che differenza c’è nelle tempistiche di realizzazione rispetto alle scenografie classiche?
Livermore e Cucco: «Abbiamo iniziato a realizzare questo tipo di scenografia con grandi superfici Led con Aida nel 2016 per Sydney Opera House. In quel caso abbiamo creato una scena completamente digitale utilizzando 12 schermi Led in movimento in grado di ruotare e spostarsi sulla scena. Da quel momento è diventata una macchina scenica residente da utilizzare per tutte le opere prodotte a Sydney.
Con la Scala abbiamo spinto la ricerca ancora più avanti, avendo realizzato (gli unici nella storia del teatro) quattro prime consecutive. Con Attila nel 2018 abbiamo iniziato ad immaginare una scena dove immagini e scenografia reale fossero in stretta simbiosi. Lavorare in questo modo prevede il dover creare due diversi progetti: uno scenografico “classico”, ed uno di video design che vive invece di superfici tecnologiche e di produzioni video che mescolano shooting, 3D, animazioni 2D, con una continua ricerca sui linguaggi visivi.
Nel caso di Turandot per esempio le immagini all’interno della sfera sono state realizzate in parte riprendendo petali, tessuti e liquidi con una camera in grado di girare a 1200 frame al secondo per creare un effetto del sospensione nel tempo in hyper slow, combinato con l’effetto sferico realizzato in 3D che ha permesso di creare il nostro mondo virtuale».
Questo tipo di scenografia modifica il lavoro dei cantanti?
Paolo Gep Cucco: «I cantanti nelle regie di Davide fanno parte di una complessa macchina scenica più vicina alle caratteristiche del cinema o del musical che a quello dell’opera tradizionale. Viene richiesto ai cantanti di diventare parte integrante del percorso narrativo e di mettersi quindi profondamente in gioco attraverso la loro arte scenica. Spesso i cantanti sono stati anche ripresi per diventare parte della scena video o dei promo tv: per esempio Anna Netrebko e Luca Salsi sono i protagonisti dei due promo Rai che abbiamo realizzato per Tosca e per Macbeth».
Come cambia il rapporto del pubblico con il palcoscenico?
Davide Livermore: «Dipende qual è il pubblico nel senso che il nostro lavoro, soprattutto con le quattro prime della Scala, si rivolge spesso sia al pubblico presente in teatro sia al pubblico televisivo. In questo caso non abbiamo mai immaginato di dover fare una semplice ripresa di uno spettacolo teatrale, abbiamo invece ragionato profondamente sul punto di vista del pubblico e sulla sua esperienza rispetto alla scena, alla storia e alla narrazione. Il pubblico oggi è abituato a una fruizione del virtuale e a una dimensione cinematografica che porta ad un’espansione dei suoi sensi. E’ giusto parlare un linguaggio che ci appartiene, tanto è vero che i riferimenti al cinema sono per noi fondamentali: Macbeth per esempio è inserito in una città che ricorda Inception di Nolan, Don Pasquale aveva una Cinecittà poetica e felliniana, Aida aveva dei riferimenti al film Stargate, Attila citava Roma città aperta… il cinema è parte integrante del nostro immaginario».
Che tipo di riscontro state ricevendo dal pubblico?
Livermore e Cucco: «Un grande riscontro sia da parte del pubblico che della critica perché nulla è stato fatto semplicemente col desiderio di volere innovare o di dovere fare sperimentazione, ma come detto all’inizio l’obbiettivo è quello di riuscire a trasmettere emozioni per raccontare una storia col massimo dell’impatto visivo possibile».
A quali altri progetti che prevedono l’uso di questo tipo di scenografie state lavorando?
Livermore e Cucco: «Tra poco uscirà il nostro primo film THE OPERA! che è un film completamente girato all’interno di un virtual set in cui gli environment digitali sono una parte fondamentale della nostra estetica. Abbiamo fatto un grande lavoro con lo staff di D-wok per creare un mondo fantasmagorico inserendolo nella tecnologia innovativa dei Prodea Led Studios.
Tra i progetti che più metteranno in relazione il lato virtuale e reale ci sarà la prima produzione della tetralogia di Wagner per il Teatro dell’Opera di Montecarlo nel febbraio del 2025. In quel caso la scena sarà una macchina visiva straordinaria dove riprese sott’acqua, ricostruzioni tridimensionali di spazi e ambienti permetteranno di raccontare l’epica dei nibelunghi in una maniera crediamo nuova e immersiva».