Si sta, come d’autunno, a St. James, gli scoiattoli sulla scimmia di Jeff Koons. Circospetti e sospetti, inetti, instabili e inquieti, come i tempi che corrono verso i peanuts, aspettando elezioni, inflazioni, tassi, tasse, guerre, governi, crisi, Parigi. A due passi da Christie’s, sulla square dove brilla il lucido pallone gonfiabile di Koons con i suoi 7,6 milioni di pound appena scanditi con diritti nell’interno sede (sgonfiato solo dalla nuda pastosa con la faccia grumosa di Freud a 11,8), tra le poche note non stonate di una Frieze Week sottotono. A King Street una buona Evening ha visto il martello lievitare fino a 82 milioni (contro i 96,5 dello scorso anno). La casa di Pinault porta a letto la sera e guarda già ai riflessi dei pensieri italiani sulla Senna, con una espatriata Thinking Italian assemblata in maniera quasi perfetta (link al catalogo come controprova). Mercoledì 9 alle 17, da queste parti, si tirava un sospiro di sollievo, due ore dopo (alle 19) il sollievo sospirava silenzio post traumatico nella sala concorrente appena più a nord, nel blu dipinto di blu di Bond Street. 23 lotti per Sotheby’s per un totale di 37,6 milioni abbandonando stavolta l’ultracontemporary The Now (erano 15,5 + 45,6 le due Sale chiave del 2023, The Now e Contemporary – che sommate però a quelle estive, tagliate da Christie’s, si toccano i 120 milioni, per Sotheby’s però niente Hong Kong, difficile fare paragoni diretti). Una doppia passione sessione Serale che non si era mai vista e si spera mai più si vedrà simultaneamente, dato che nella stessa giornata si sommava all’apertura delle due sorelle Frieze, e alla processione dalle 16 verso Mayfair amando Mews e grondaie di Marylebone. Si salva Hockney in Costa Azzurra del 1968 a 13,2 milioni (che nel 2011 era passato a 1,3 milioni) e poco altro andato in Asia come Bridget Riley e Anselm Kiefer. A letto presto e passare oltre, oltre la Manica, sulla Senna, nella nuova sede sempre a Fauborg St. Honorè ma all’angolo con avenue Matignon, poi salpare direzione collezioni di New York (quella magica di Sydell Miller è stimata sui 200 milioni di dollari, quella di Harry F. Guggenheim si specchia nel tris aureo Gauguin, Giacometti, Franz Marc) e tirare le somme sulle folli commissioni, quelle nuove invecchiate male. Cambiare per un sereno Natale. Occhio ancora a Christie’s che nella Grande Mela vuole luccicare nei sogni di Midtown, Manhattan, Magritte e Mica Ertegun (Collection) con uno dei più importanti imperi delle luci mai vagheggiati, del 1954, da 100 milioni di dollari. Si sta come Magritte, mistico-destabilizzati tra notte a giorno e giorni illuminati a notte. Tutto chiaro come il turchese del cielo e la glassa di pasta di pietra pregiata turquoise Kashan di Sam Fogg in galleria. Per le cose che contano bisogna aspettare Parigi, nell’isola isolata Londra rimangono le cose di Londra, quelle “espanse” del Commonwealth, quelle riadattate alle esigenze post-Brexit, quelle che mancano all’appello perché “ci vediamo al Grand Palais”, quelle necessariamente alternative che sembrano echeggiare i primi fasti di Frieze e quelle, tante, facili e mediocri che fanno da ancelle al circo. C’è più pioggia che sole tra Pall Mall e Regent’s Park, i senior si riparano al Bar des Prés o al Gattopardo dietro i caustici Murillo di Zwirner, i junior a Santa Maria Pizzeria a Fitzrovia, di notte entrambi atterrano al Mark’s o al Groucho Club a SoHo per battibeccare su una PAD in spolvero -che sorride oltreoceano dei 59 milioni di dollari di solo-show-sale Lalanne, da Christie’s, il 10 ottobre- e sulla “non fiera d’arte” Minor Attractions al Mandrake qualche isolato più in là. Boutique hotel chiama boutique design davanti a una bufala o una burrata. Risponde Phillips giovedì alla sua decima stagione su Berkeley Square con giovani pittori boutique red-chip con una performance serale da 15,1 milioni di sterline, in calo di quasi il 18 percento rispetto all’anno scorso (in linea comunque con le perdite varie e trasversali del segmento incanti, già tra il 20 e il 30 percento nel primo semestre 2024, in crescita). Una sfilata di stendardi firmati Gucci Street Art Program e un paio di terrace più a nord giocano gli assi della Settimana, Frieze London e Masters. Mano in difesa, le fiere perdono pezzi: collezionisti (gli americani arrivano tardi o direttamente la settimana prossima con il cirque di Paris), gallerie (gravi alcune mancanze, l’America latita ma alla fu Paris+ ci saranno), città (scarica e spenta, in cui ballano in solitaria Walker da Pilar Corrias, Wiley da Friedman, Wood da Gagosian, Emin da White Cube, Kusama da Miro, Bacon alla Portrait, Craig-Martin alla Royal, Monet al Courtauld, van Gogh alla National, l’India al Barbican e qualche altra galleria ma poca roba rispetto al solito). Si prova in maniera più o meno intelligente e impellente, inevitabile per non soccombere, a sopperire agli spazi che sono, guardando ai fasti che furono, mutando prospettive e ambizioni, orizzonti, proprio come sta facendo Frieze London: nuova brava direttrice (Eva Langret, la Siddall è alla National Portrait), nuove sezioni curate, meno espositori, bagno di sobrietà e realtà, rimescolamento e rigenerazione di layout e percorsi (messi a punto da A Studio Between), tanta troppa pittura inutile ma vendibile soprattutto ai “nuovi” e “freschi” collezionisti, prezzi “calmierati” (esclusi i giganti alla Carol Bove-Gagosian 850 mila, Lisa Yuskavage+Noah Davis-Zwirner oltre 2 milioni, Hockney-Pace non dichiarato, il range va dai 10 ai 200 mila pound, il ticket combinato invece per la Thursday First Preview rimane saldo a 245 sterline). Un display nel complesso rinnovato popolato da reami locali e Regno espanso, l’Oriente su tutto, dal Medio all’Estremo con centro di gravitazione l’India, territorio tra i più dinamici della scena assieme al continente africano – il mercato è sano come dimostra 1-54. Funzionano le live session di acrilico alla Billy Childish (da Lemaunn Mapin), il settore Smoke dedicato alla ceramica plasmato dal curatore dell’Hammer di Los Angeles, e gli “artisti che chiamano gli artisti” in un corridoio garbato. Negli altri corridoi intanto si parla arabo, farsi, indiano. Inglese in tutte le sue salse; francese anche se poi “comprano a casa loro”; italiano, pasturante nella tensostruttura a fianco, quella dei Maestri. Se Frieze London andrà ridimensionandosi verso una proposta e interesse maggiormente “locale”, nel senso dilatato dell’Impero britannico, Masters deve capire cosa fare alla sua edizione numero 12. Il livello è sempre alto, ma l’antico latita come offerta, i pezzi girano imperterriti come trottole tra acronimi, da Tefaf, poi Brafa, Biaf, Fab e compagnia. Come già percepito nelle ultime Tefaf (presa come caposaldo e termometro) l’Ottocento è entrato prepotentemente (in accezione anche positiva) a compensare la proposta (con tutto quello che è African e Asian) e viene affiancato ancora più prepotentemente (questa volta in accezione negativa) dall’arte contemporanea. O meglio, o fai un’operazione coerente, “totale” e perfettamente riuscita come l’apparato-sezione Studio (dodici gemme, come White Cube con la Salcedo, Victoria Miro con Adriana Varejao, Paula Cooper con Beatrice Caracciolo e via discorrendo) se no il pugno arriva prima negli occhi, poi nello stomaco fino al basso ventre ai rotori che vorticano male e banale a dispetto di una calligrafia cufica su una pottery from Nishapur persiana, o su una Gogotte di sabbia lunare lontana millenni di luce. Masters è, era, ancora è, sarà non si sa, una delle fiere meravigliose della stagione, ma cede nel tempo identità, vitalità e pure gente (palese in preview, quasi imbarazzante) pur mantenendo saldi i suoi picchi: sarcofagi di principesse egizie, riccioli di limoni fiamminghi, terre di mezzo, cronache di Narnia, surrealismi seducenti, ammoniti cangianti, glorie di Shamsa timuridi di oro nel blu, ricami safavidi da far brillare il giardino dell’Eden. Una quinta culturale che cozza con le temperature in picchiata di abissi nel vuoto contemporaneo che spunta qua e là. Distillando una marmellata ansiogena che almeno si è dissolta, lato vendite, dopo le prime di ore di attesa, i bollini lentamente sono arrivati e la baracca è stata portata a casa (anche perché a Londra costa esporre, vivere, stare e dalle tasse, dogane all’espresso del chioschetto Illy in fiera a 4,95 sterline ce n’è da piazzarne). Per il resto, buona, ma non ottima, la proposta della sezione Spotlight; tanti gli espositori che han fatto di necessità virtù e si sono fusi in un solo stand; tanta Delhi e Mumbai anche a queste latitudini di Regent’s Park, molto Medio Oriente (Saudi ed Emirati) e Sole Nascente (che fa il paio con la proposta fuori i tendoni, vedi Haegue Yang all’Hayward, Mire Lee alla Tate e Minsuk Cho + Mass Studies alla Serpertine), e a breve (17 ottobre) per un mese (fino all’11 novembre) sarà stella levante nel cosmo Asian Art (zenit dal 30 ottobre all’8 novembre, con i Mughal al V&A e la Silk Road al British a corona del momento). Non vedere Moretti, Dickinson, Agnews, Lampronti e Nahmad non fa bene. Occhio che Fab Paris è fra meno di due mesi. E Paris, con ancora tutti i suoi limiti noti, si sta scrollando la sua patina di noia nazionalista e fa il gioco suo. Balla sul cadavere di Londra e offre uno spettro di garanzie, fondazioni, istituzioni, iva, esposizioni al collezionista medio, alto, europeo, afro, americano, orientale che non ha limiti, eguali. Il Re è nudo e la Repubblica gode. Di pari passo arrivano i “collaterali”: effetti, eventi, feste, fiere, design, lusso, moda, arie che il Tamigi pare un affluente della Senna.