Settanta opere di un’arte istintiva, sconvolgente, non accademica di autodidatti travolti dall’urgenza di dare libero sfogo alle loro pulsioni creative, senza regole, come pratica pittorica curativa delle proprie ossessioni, sono esposte a Milano in tre sale al primo piano del Mudec – Museo delle Culture di Milano, dove, sotto l’aggettivo Art Brut, che non significa brutta, scopriamo l’aspetto salvifico, rigenerante, inclusivo, antropologico e spirituale dell’arte come prassi dell’essere umano.
Le opere della mostra “Dubuffet e l’Art Brut. L’arte degli outsider”, a cura di Sarah Lombardini, direttrice della Collection de l’Art Brut di Losanna, Anic Zanzi, conservatrice, e Baptiste Brun, docente e curatore, promossa da 24OreCultura, è l’occasione per conoscere la Collection de l’Art Brut di Losanna e di approfondire l’Art Brut. Non è un movimento, bensì un’espressione della creatività non razionale, senza filtri e regole, dal segno ingenuo e liberatorio.
Al Mudec scopriamo autori affetti da disturbi mentali e patologie di detenuti o detenute negli ospedali psichiatrici, cosiddetti ‘folli’, ostracizzati dalla società borghese, autori non professionisti, vissuti in solitudine al di fuori del mercato dell’arte e non riconosciuti dalla critica. Senza follia non c’è arte, intuizione e innovazione, come dimostrano le opere di Jean Dubuffet e della sua collezione dal 1971 di Art Brut. Tutto inizia nel 1944, quando il mercante d’arte René Dourion organizza nella sua galleria a Parigi la prima mostra dell’artista autodidatta (1901-1985), a cui seguiranno altre dal 1945 in poi. Questo è l’anno della liberazione dai nazisti e della fine della guerra. Parigi festeggia con Les Otages di Jean Faturier e la celebrazione di Picasso al Salon d’Autunne, quando l’arte è più radicata nella quotidianità in dialogo con la società. Dubuffet, in questo contesto culturale, si spinge oltre il primitivismo, affermando nel 1946 che “tutti sono pittori”, poi i bambini, crescendo, archiviano la propria naturale pulsione creativa.
L’Art Brut è un’espressione artistica autentica, in relazione con la psiche: “interamente pura, grezza, reinventata in tutte le fasi dal suo autore, a partire solamente dai suoi impulsi”, dichiara Dubuffet, scrittore prolifero, in grado di sovvertire i valori fondanti della società e della nostra cultura, secondo una visione “multifocale”, che noi oggi consideriamo multiculturale. Questa mostra al Mudec trova il contesto ideale per intrecciare un dialogo tra la cultura occidentale e il mondo. Dall’Art Brut impariamo che la diversità è cultura del dubbio, e ogni singola opera esposta, al di là di pregiudizi culturali o convenzioni estetiche, è degna di attenzione, poiché elabora a suo modo un linguaggio originale in rapporto all’internazionalità. Dubuffet non ha mai esposto le sue opere accanto a quelle degli autori e autrici di Art Brut, da lui stimati, ma dal confronto capiamo che l’artista non ha mai preso lezioni da nessuno, tantomeno dall’Art Brut, dimostrando la sua genialità per un approccio antropologico, pluralistico all’arte e per il “materismo”, la sperimentazione di materiali diversi in sostituzione alla pittura tradizionale e in opposizione al primitivismo, anticipando per certi versi l’Arte povera. Dubuffet è ancorato a una concezione animista del mondo, con l’obiettivo di mettere in discussione il linguaggio fondato dall’istituzione culturale, che limita il pensiero e la creatività, individuando autori al di fuori degli ambienti artistici, a favore di un’arte grezza. Nel 1976, fedele alle premesse dell’Art Brut, Dubuffet dice ai visitatori della sua mostra a Le Havre: “Non è vietato immaginare per l’interpretazione del mondo altri codici, altre proprietà rispetto a quelli in cui noi fino a oggi abbiamo avuto piena fiducia”. All’apertura, nel 1976, la Collection de l’Art Brut aveva cinquemila opere; oggi ne conta settantamila.
L’Art Brut è un linguaggio artistico autoreferenziale che ha contribuito, insieme ad altre correnti avanguardiste, a modificare il concetto di Arte e di Bellezza nel secondo Novecento. La mostra conferisce dignità all’arte che nasce da una necessità reale di comunicare, senza seguire stili, tecniche o le oscillazioni del mercato dell’arte; inoltre, incontriamo personalità complesse che hanno vissuto storie affascinanti da raccontare, strettamente legate all’opera esposta.
Le opere, provenienti da cinque continenti, divise in sezioni legate al corpo e alle credenze, considerate nel senso più ampio rispetto alla sola dimensione religiosa, che rimandano alle attività psichiche individuali, sono temi essenziali per lo sviluppo dell’arte di tutti i tempi, in dialogo con le collezioni permanenti del Mudec, che puntano sull’emozione e incoraggiano a liberarci da pregiudizi culturali, a favore di un’arte inclusiva.
Dubuffet, messo a confronto con i protagonisti dell’Art Brut, che rappresenta una rottura con l’arte ufficiale, riconosce l’arte vera nei disegni e scarabocchi dei bambini, nell’arte naif o popolare, e nelle deflagrazioni di colore e forme degli alienati mentali; i più liberi di infrangere le regole culturali. Lui è stato legato all’Art Brut, ma non dominato, in cui prevale l’arte della diversità. Più tardi, l’artista escluderà dalla sua collezione i disegni dei bambini e l’arte popolare e naif, concentrandosi su opere realizzate da autori vissuti ai margini della società, per lo più sconosciuti. L’Art Brut, ieri, era totalmente ignorata dalla critica e dal mercato, bollata come arte dei ‘pazzi’; oggi è riconosciuta come linguaggio artistico autoreferenziale, sempre contemporanea, che si è sviluppata nella Street Art.
La mostra si apre con la sezione dedicata a Jean Dubuffet, curata da Baptiste Brun, distaccata ma connessa ad altre sezioni, presenta disegni, dipinti, sculture dal 1944 al 1985, pubblicazioni, manoscritti e tesi di laurea dedicate all’Art Brut e altri materiali preziosi per approfondire il suo approccio antropologico e profondo all’arte, che si intreccia a valori più profondi dell’umanità e della società, superando gerarchie culturali e includendo tutti. Nato da una famiglia borghese, benestante, Dubuffet, figlio e nipote di commercianti di vino, dagli anni Trenta già si interessa alle marionette, al carnevale e a una pittura bizzarra, non convenzionale, antiaccademica; un’attitudine che lo porterà a collezionare l’arte ingenua dei bambini e dei folli ghettizzati negli ospedali psichiatrici, perché la pittura “cambia la vita”, come ha dichiarato l’artista.
La prima sala raccoglie le opere più significative dei maggiori esponenti dell’Art Brut, di Aloise Corbaz, Adolf Wolfli, Emile Raiter e Carlo Zinelli, il più famoso autore italiano di Art Brut. Le due sale che seguono espongono opere provenienti dal nucleo storico del museo di Losanna o acquistate dopo la donazione di Dubuffet. Pitture, assemblaggi, disegni, sculture, sono tutti pezzi unici o entrati nelle collezioni del museo di Losanna dopo il 1971, selezionate secondo i criteri di Dubuffet, molte di autori italiani, come Giovanni Bosco, Antonio della Valle, Giovanni Galli, ancora vivente, riconoscibile per uno stile fumettistico e la rappresentazione di donne dominatrici. Angelo Menai è unico per le sue maschere colorate realizzate con stoviglie rotte recuperate nei grandi magazzini, e Giovanni Podestà inserisce nelle opere vari motivi simbolici, popolari, religiosi, tratti dal Medioevo, come riferimento ideologico per indicare la perdita dei valori spirituali della civiltà industriale, a suo modo un performer, poiché usa il suo corpo agghindato con vestiti e accessori da lui stesso creati.
La maggior parte degli artisti in mostra ha rotto con la società; emarginati e anticonformisti, rivelano una capacità di reinterpretare dogmi ordinari in maniera straordinaria. Loro, seppure isolati, spinti dal desiderio di riconnettersi con la realtà esterna, trovano energia e risorse all’interno delle loro fragilità, inventando universi resilienti basati sulle proprie credenze individuali. E noi siamo capaci di farlo?