Per prima cosa vorrei farti le mie congratulazioni per l’esposizione che hai inaugurato da poco a Regina, in Canada. Di cosa tratta?
Grazie! È una retrospettiva e il titolo, She is present, vuole contrastare l’idea di assenza della donna nella società, affermandola: “è presente”.
È curioso, io parlo inglese ma non sono madrelingua, e pensavo a “present” nel suo significato di “tempo presente” piuttosto che dicotomico ad “assente”. È qui, ora, la vedo e non posso ignorarla. Pensavo anche a “present” nel suo significato di “regalo”. Ah, mi piacciono molto le idee che proponi di “present”, entrambe descrivono in qualche modo l’esposizione. Credo che il titolo di questa mostra, insieme a quello dell’ultima retrospettiva The performance of being, riescano a sintetizzare molto bene la mia pratica artistica, che in realtà è molto legata alla performance. Nel 1980 ho iniziato il Master a New York proprio in performance, a volte quasi me ne dimentico perché mi sono spostata su altri media molto presto, ma sono sempre stata molto interessata al “corpo performante”. Me stessa e il mio corpo sono sempre stati parte della mia arte, all’inizio piazzavo una camera fissa e scattavo foto di me in movimento mentre facevo perfomances di vario genere. I miei lavori si focalizzano sull’identità e sulla performatività dell’identità, seguendo le teorie di Judith Butler, che ci ha introdotto molto sapientemente non solo alle teorie di performatività di genere, ma alla performatività che c’è dietro ogni cosa.
C’è qualcosa in particolare del corpo che attrae la tua attenzione?
I corpi marginalizzati, gli “altri”, e cosa essi significano. Tutto è iniziato dal circo: ora non più, ma fino a qualche anno fa mettevano in mostra gli “storpi”, qualcosa per cui pagare un biglietto, un vero e proprio spettacolo. Questi “storpi” non erano altro che persone con corpi fuori dallo standard, persone con problemi ormonali o di altro tipo, come i gemelli siamesi. Il lavoro che ho intrapreso sul circo mi ha profondamente cambiata, e un senso di rabbia ha cominciato a crescere dentro di me.
Per tanti anni il tuo lavoro si è concentrato sull’invecchiamento delle donne, è legato al circo e ai corpi marginalizzati? So che tu sei canadese, ma recentemente ho scoperto che in America le donne iniziano ad essere considerate “vecchie” dai 35 anni, attraversata quella soglia è come se non ci fosse più spazio per un miglioramento fisico o mentale, ma anche professionale. Da un punto di vista europeo penso sia folle, è un fenomeno che avviene anche qui, ma direi dai 50.
Per rispondere alla prima domanda, sì, è legato all’idea di circo. Poi in Canada la situazione è più simile a quella europea, quando parlo di “assenza” delle donne nella società faccio riferimento più ai 50 anni e oltre. L’invisibilità entra in gioco anche con la menopausa, quando non puoi più avere figli e tutto ad un tratto il tuo valore per la società crolla, non sei più attraente né sexy. Sul mercato ci sono tantissimi prodotti di bellezza per donne che promettono di farti sembrare più giovane, anzi, eternamente giovane. Il punto è che non ne hai bisogno. Agli uomini non è riservato lo stesso trattamento, al contrario, i capelli grigi vanno più che bene e l’avanzare degli anni ti rende solo più saggio e sicuro di te e di quello che puoi fare e dire. Il punto è che nessuno può fuggire all’invecchiamento. Devi sapere che mi sono presa cura di mia mamma per diversi anni, è stata in cura a casa fino ai 90 anni. Starle vicino mi ha fatto provare molta compassione, non pensavo alla bellezza, alla giovinezza o ad altri cicli di vita. Quel periodo della mia vita, insieme alla menopausa, mi hanno influenzata molto: vedevo le cose cambiare e io semplicemente le accoglievo con un’attitudine quasi buddista di auto-accettazione e amor proprio. E ti assicuro che non è facile osservare il tuo corpo cambiare a vista d’occhio.
Hai mai fatto autoritratti?
Molti, i miei quaderni di schizzi sono pieni di autoritratti. Non sono ritratti reali né esercizi di stile, rappresento il corpo per l’esperienza che vivo, e poi ci scrivo, tanto, come mi sento, cose della vita o anche riflessioni su me stessa come sul mio peso. Questi quaderni rappresentano una parte molto importante del mio lavoro e infatti non li butto mai. Credo siano la parte che preferisco proprio perché sono molto immediati, quasi grezzi, e incredibilmente onesti, privi di modifiche o post-produzioni.
Com’è cambiata la percezione di te stessa negli anni? C’è un filo rosso, qualcosa nella tua identità che è rimasta la stessa anche quando tutto cambiava?
Sì, mi ritrovo ancora in tutti i lavori ora in esposizione, anche quelli più vecchi, e ancora provo le stesse sensazioni, forse solo meno rabbia rispetto ad allora. Ho un intero lavoro intitolato Normal dove ho in qualche modo distorto la mia persona scattandomi delle foto in pose volutamente molto aggressive, o tristi, o introverse, su cui successivamente ci disegnavo sopra. C’è davvero tanta rabbia in quel lavoro, verso la società patriarcale e verso gli uomini che guardano le donne come mero oggetto di desiderio. Ora è diverso, non mi interessa più alzare la voce su quelle tematiche e anche le sensazioni sono cambiate, la rabbia è stata sostituita dalla compassione. Recentemente ho realizzato dei lavori sulla situazione politica internazionale. Il mio lavoro rimane molto personale, ma maggiormente indirizzato verso priorità globali, anche se ciò che realizzo oggi ha le radici nell’invecchiamento delle donne. Ora osservo cosa succede alle persone intorno a me, oltre a me stessa.
Sembra che attraverso il tuo lavoro tu abbia sempre cercato una sorta di pace. Quando hai iniziato sentivi il bisogno di fare pace con te stessa e il tuo corpo, con lo sguardo maschile e con l’invecchiamento. Ora che l’hai trovata, la tua attenzione si è spostata su altre preoccupazioni, sulle ingiustizie e sulle persone che soffrono. Non so, è una sensazione.
Leesa Streifler è nata a Winnipeg, Canada, nel 1957. Ha studiato all’Università di Manitoba e al Hunter College di New York e nel 1986 è diventata Professoressa di Arti visive presso l’Università di Regina, in Canada. Nel suo lavoro esplora temi quali la malattia, l’invecchiamento, la famiglia, l’immagine del corpo, la salute mentale, la morte e l’identità, soprattutto in relazione alle donne, esplorando queste esperienze, spesso intense, emotive e psicologiche. Il suo lavoro è parte di diverse collezioni permanenti pubbliche e private, tra cui Canada Council Art Bank (Ottawa), Canada National (Ottawa), Museo canadese della fotografia contemporanea (Ottawa), Saskatchewan Arts Board, Winnipeg Art Gallery, e Kenderdine Gallery (Saskatoon).