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Maiastra. Cinque opere in una cantina di via Porpora a Milano

Maiastra, Installation view, via Porpora 160, 2024, © gli artisti e Collettivo Arà
Maiastra, Installation view, via Porpora 160, 2024, © gli artisti e Collettivo Arà

L’opera e la sua prospettiva. Si potrebbe riassumere così Maiastra, mostra visitabile fino al 12 novembre 2024 in una vecchia cantina di via Porpora 160, a Milano.

Da un lato un debito, e dall’altro la finzione che ricorre per mettere in luce ciò che passa sottovento, nel buio di un luogo nascosto e impolverato. Da qui, dunque, comincia il Collettivo Arà (Ennio Lauretta, Giorgio Lorefice, Vittoria Montesano) insieme a Pietro Coppi, Andrea Fais e Lorenzo Finotti. Da un’intuizione che sembra quasi svincolarsi dall’elogio del desueto, ora liberato di quel substrato incidentale che vuole fare dell’opera d’arte il motivo di un’attualità che soffoca.

Lorenzo Finotti, La luce che abitiamo, il tempo che ci attraversa, Installation view, Maiastra, 2024, © l’artista

Ebbene, il luogo veniva usato come rifugio, come spazio protettivo della vita fisica e dei sogni, dei desideri che lì si lasciavano nascosti. Una cripta sotto un palazzo in cui ricoverare ogni sorta di “tensione” che, per contro, spingeva fuori, verso l’altrove che chiamava dal mondo. Una mostra polifonica dalla quale, tuttavia, si erge il canto di una sola voce. Le opere sono unitarie, contestuali, mostrano proiezioni di luci e il loro rapporto con le ombre.

Ciò che si rivela nella velatura, l’illuminazione di ciò che sta al fondo (o dietro) per carpirne le tracce. Per seguire, in altre parole, ciò che la stessa polvere cela, oppure tutto quello che la polvere – nel tempo e del tempo – consegna, tramanda e sedimenta. Da un lato, quindi, la volatilità della luce, che imprime le sagome, mostra paesaggi assestandosi sui calcinacci (Lorenzo Finotti, La luce cha abitiamo, il tempo che ci attraversa), oppure incontra il riverbero di una costellazione sulla ribalta di un corpo (Andrea Fais, Dietro le quinte del cosmo).

Andrea Fais, Si vela ciò che sconfinato è, Installation view, Maiastra, 2024, © l’artista

Dall’altro lato, invece, la statuaria di una leggera pesantezza. Tiranti di nylon che ancorano a terra la voluta di una mongolfiera di carta vetrata e polvere di gesso (Lorenzo Finotti, Geografie – c’è chi nasce con la particolare esigenza di abitare altrove). Nel chiuso di una medesima stanza dove un metro quadrato di pigmento e polvere di marmo mostrano la gravosità del cielo (Andrea Fais, Si vela ciò che sconfinato è).

Opere e testi (Coppi-Montesano), pertanto, con cui dare corpo alle “piccole polveri del passato”, per dirla con Alda Merini. Quei labili granelli che ci permettono di solcare la prospettiva di una via nuova, che “sono il suo cammino”. Dove non c’è, in fin dei conti, nessuna ulteriore genealogia, così come nessuna voglia di creare il non creato, ma di posporre l’attenzione su forme elementari che illuminano ciò che è coperto, che portano chiarezza sul sorriso di una situazione oscura. Come l’omonimo uccello in ottone lucidato di Costantin Brancusi (Maiastra, 1912 c.), un essere appartenente al folklore rumeno la cui forma diventa un emblema: un esposto oggetto dorato che, nella sua semplicità, incarna la dinamica verso l’alto di una tensione. Il corpo concreto dell’esistente; memoria di una lanterna per un viaggio possibile e, magari, ancora praticabile. 

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