A pochi giorni dalla chiusura, una nuova, pregnante lettura della mostra “Aere”, a Palazzo della Penna di Perugia
Ci sono mostre che, per quanto possano apparir defilate, sono preziose e piene di poesia. Aere è una di queste mostre. Una raccolta di opere, concepita e curata da Massimo Mattioli per Palazzo della Penna a Perugia, che parla d’aria. Cosa c’è di più impalpabile e necessario dell’aria? La mancanza d’aria minacciata dal Coronavirus ci ha restituito, di converso, un silenzio liberato dalla tossicità dello smog e dai suoni della folla umana. Quel silenzio, nel mondo dei lockdown, è nato da un gioco di rimessa dell’antropocene che ha lasciato i cieli agli uccelli e alle nuvole, le cui forme che vanno e vengono, come diceva De André, s’aprono all’immaginazione.
Proprio le nuvole c’accolgono all’ingresso della mostra che possiamo vedere fino al primo dicembre, sono le nuvole composte a matita da Elvio Chiricozzi. Queste nuvole sembrano essere la condensazione dei respiri del lavoro continuo di sfregamento, è copertura sapiente di diverse densità; è come se l’artista avesse trasformato la dura essenza della grafite in vapore umido liberato nella tela vuota. Nella stessa sezione troviamo la pittura atmosferica di Luca Vitone che restituisce oggi quella che fu l’azione di Yves Klein o, meglio, la non azione, quando fece dipingere candide tele dagli agenti atmosferici. Qui, in modo ancor più quiescente, l’artista lascia la superficie intonsa alle intemperie che imprimono il proprio ritratto sottolineando il duplice significato del termine tempo, atmosferico e cronologico.
Metafora dell’inganno
Centrale, nella prima sala, la nuvola del pittore napoletano Giacinto Gigante. Quasi per ricordarci che proprio in quel secolo diciannovesimo le nuvole furono un modello transitorio per gli artisti, la nuvola di Gigante è spunto per curiose speculazioni. Speculazioni furono quelle bizzarre di Goethe, forse influenzate dagli studi del proto nefologo Luke Howard, poi radunate in un trattato che inaugura un genere singolare. Così, l’aria è vettore informe della voce che simile a una nuvola, forma un concetto udibile nella parola, al tempo stesso l’aria umida condensa alla vista labili immagini che l’apofenìa correla al repertorio delle cose note. Queste forme che s’addensano fugaci paiono un raggiro della mente come lo furono per lo Strepsiade di Aristofane ripreso poi dal goffo Polonio nell’Amleto di Shakespeare.
La nuvola, per così dire, diventa metafora dell’inganno, una trappola sofisticata ma necessaria alla rappresentazione in cui l’aria resta l’unica certezza. Alla nuvola, infatti, lo storico dell’arte Hubert Damish ha dedicato uno studio che prese il nome di Teoria della Nuvola e l’assai più curioso Nuvolario di Fosco Maraini che tratta astrusi principi di “Nubignosia”. Trattati che rendono questa effimera illusione una concreta figura d’aria. Per questo la foto di Berndaut Smilde sembra delineare il ritratto di una evanescenza che, nel suo fare spazio, rende mutevole la durezza permanente delle linee architettoniche.
Vitale afflato
Nello stesso modo, le nuvole sotto teca di Leandro Erlich sembrano un campionario di tipologie, simile a quello che, a sua volta, tentò di fare tra il 1821 e il 1822 il pittore inglese John Constable. Le nuvole sorreggono, quindi, il mondo dell’immaginazione come nei dipinti di Giuliano Giuggioli e nei borghi sospesi da Corrado Bonomi che galleggiano in una giocosa installazione quasi fossero le città inventate da Italo Calvino. Nuvole che sono, ancora una volta, divagazioni letterarie della parola, come quelle illustrate da Guggioli. D’altra natura sono i nembi verticali di Donato Piccolo. Le sue mirabolanti teche meccaniche rimandano all’artificio in una sostanziale dimensione ludica interattiva.
La colonna d’aria impostata da Piccolo, materializzandosi, s’altera grazie a sensori che, registrando la presenza umana nella stanza, cambiano lievemente lo spessore del flusso verticale che si muove dando forma all’aria. L’aria si fa pneuma, cioè, vitale afflato dell’artista che immette la propria anima nell’opera, come la traccia di un dito, il proprio escremento, il proprio fiato, come ha fatto Piero Manzoni in Fiato d’artista nel 1960. Eppure, lo spazio che risolve la distanza tra opera e artista, sia esso colmato dall’aria o dalla contiguità risolta dal contatto con una superficie, resta comunque il luogo di una riflessione, cioè, della restituzione di uno sguardo per via di un fenomeno.
Un filtro per la luce
Il battito d’ali dei piccioni per Leonardo, come ci racconta l’aneddotico Vasari, dava visibilità a quell’aria impalpabile ma che il grande artista riteneva consistente. L’aria che s’addensava per sorreggere il volo e per allontanare nella foschia i paesaggi, era la proiezione di un’intuizione. Se gli uccelli davano forma visibile a ciò che visibile non era, gli uccelli danno suono all’aria nella registrazione eseguita da Juan Pablo Marcías durante la sua residenza in Italia nel 2020. Voci di venti portate dal cinguettio e dalla bocca dei volontari chiamati a imitare al microfono il flusso dell’aria. Azioni e proiezioni, sono i grumi concreti e astratti di Arturo Casanova e le superfici traforate di Aldo Grazzi. L’una all’altra opposta, l’opera di Casanova è tutta concentrata sul modo in cui la materia sta sul supporto per darsi alla luce, mentre in Grazzi è un filtro per la luce, ossia uno strumento per disegnare, sul muro retrostante e distaccato, un motivo visibile grazie a un’ariosa intercapedine.
Ritorna poi la trasposizione del corpo dell’opera nel corpo dell’artista con la famosa azione di Gino de Dominicis, Tentativo di volo del 1969. Il video dell’azione sembra una parodia fallimentare del famoso volo di Yves Kein da un tetto nel sobborgo parigino di Fontenay-aux-Roses, che De Domincis trasforma in uno sforzo da Sisifo davanti a un paesaggio di montagna come in un quadro romantico. L’aria è, infatti, l’oggetto della contemplazione del sé e, in quanto vuoto, quale spazio di sondaggio cosmico. Inaccessibile e simultaneamente interrogabile all’infinito a cominciare dai fenomeni atmosferici più vistosi fino a quelli impercettibili.
Firmamento esistenziale
La gradazione luminosa delle opere di Pablo Candiloro stabilisce, per esempio, un legame tra l’occhio e la pronuncia impercettibile del bagliore diurno, una sottile variazione di tono, progressiva, nella tessitura del colore, mentre, al contrario, lo spazio della tela diventa il luogo di un’azione ruvida e incisiva nel lavoro di Paolo Manazza. La pittura rorida e violenta di Manazza, interrotta da blocchi materici di varia densità e stesura, segna il ribaltamento del firmamento esistenziale sulla superficie. L’esatto contrario della profondità traslucida di Caspar Fraassen. Il suo lavoro è un sapiente filtro di luce in cui compare un lucore da nordica bruma. Incerto bagliore boreale di un sole che appare come un alone nell’aria umida, marina.
La nebbia che allontana il paesaggio di Edoardo Cialfi sembra, invece, la mistica deposizione di un manto delicato che distanzia e mischia le linee nette e scoscese di una costa. Le confonde all’aria e a un cielo che, come in Fraassen, occupa quasi tutta la superficie del quadro spingendo in basso l’orizzonte. Un orizzonte ribaltato è, invece, il luogo della caduta ed è un cielo nei lavori vertiginosi e a-gravitazionali di Virginia Zanetti. Sono set fotografici in cui piccoli abitanti del cielo sembrano sorreggere ciò su cui, di solito, noi poggiamo i piedi. I piccoli Atlanti che tengono su il mondo separandolo dal firmamento, simboleggiano forse quel legame tra cielo e terra che Pico della Mirandola vedeva nell’umano intelletto. Potrebbero però rappresentare il precipitare di un Icaro arrogante.
Sublime pericolo
Forse è un Icaro quell’angelo bianco che sembra caduto e conservato nel quadro di Bruno Ceccobelli. Si mostra in una reliquia, un’articolata pala d’altare medievale. Chiusa da due sportelli, questa figura assente appare come l’icona di una divinità quotidiana. Avvolta in una tuta igienica, quella indossata dai medici durante la pandemia. Però l’aria può esercitare una invisibile pressione. L’aria compressa, infatti, provoca una tensione drammatica nel radiale dell’opera di Arcangelo Sassolino. La forza dell’aria spinge il corpo plastico della scultura oltre la sua deformazione. L’oggetto industriale, il ready made, s’approssima al collasso, facendo sì che la visione venga gestita da una sensazione di sublime pericolo. Il rigonfiamento delle lettere di Mario Consiglio è, invece, il suo opposto. Una versione irenica ed edonistica della gomma gonfiata da Sassolino, un dramma decongestionato.
Non manca la posizione laterale di Mariateresa Sartori che imposta un anemometro per segnare un cerchio intorno. È il prelievo dell’azione del vento che disegna e designa l’autografia del flusso d’aria, così come s’è visto per le tele atmosferiche di Luca Vitone. L’atto performativo di Giovanni Gaggia, invece, butta “tutto all’aria”. Cioè, lascia alla caduta libera delle bandiere Ucraina e Russa di riassemblarsi fondendosi in un amplesso simbolico e accidentale. Per finire, ritorna il richiamo al volo leonardesco, stavolta disegnato da Olga Lepri in una sovrapposizione anatomica che sposta, come fosse aria, il bianco della superfice dando consistenza al vuoto. Quel vuoto che scorgiamo all’apice dello scorcio urbano dipinto da Massimiliano Poggioni, l’artista umbro che ha slanciato l’architettura celeste in una geometrica prospettiva dal basso.