Quando si tratta di progetti indipendenti, privi del sostegno diretto di gallerie, fondazioni o istituzioni museali, il processo creativo e organizzativo assume una dimensione decisamente peculiare. In questi contesti, il lavoro curatoriale alla base non è solo il punto di partenza, ma il cuore pulsante attorno al quale tutto prende forma. È il nucleo da cui si diramano le idee e le scelte artistiche, ma anche il motore che guida gli sforzi per trasformare una visione in realtà. In assenza di strutture precostituite o vincoli istituzionali, una mostra indipendente richiede una grande capacità di adattarsi a risorse limitate, sperimentando modelli alternativi di collaborazione e produzione. Se è vero che la vendita può rappresentare una componente del progetto, il cuore di una mostra indipendente come Borderland risiede altrove: nella volontà di trasmettere un messaggio, frutto di una ricerca approfondita, e nella necessità di comunicare idee attraverso una collaborazione diretta tra artisti e curatori. È un processo che racchiude molteplici esigenze: l’amore per la sinergia creativa, la passione per la realizzazione concreta di un’idea e la ricerca di un dialogo autentico con il pubblico.
Ce lo racconta Teresa Ranchino, co-curatrice della mostra.
Innanzitutto, raccontateci com’è nato Borderland e di che cosa si tratta.
Come avviene per tutte le prime esperienze nella vita, soprattutto quelle che si affacciano sulla dimensione amorosa, lavorare come curatori per la nostra prima mostra è stato un salto nel vuoto. L’ignoto si è presentato a noi come una sorta di scintillante trampolino di lancio, e non sapevamo su cosa saremmo potuti atterrare: una limpida piscina o una distesa di scogli al calar della marea. Né tantomeno conoscevamo con precisione come eseguire un impeccabile tuffo sincronizzato! Borderland è di fatto un esperimento, non solo nel processo con il quale è stato concepito e “portato a termine”, ma anche nel suo contenuto. Abbiamo scelto di esplorare il tema del corpo, poiché rappresenta il primo e l’ultimo contatto della nostra esistenza: è la nostra prima esperienza di presenza nel mondo e l’ultima che abbandoniamo – e in questo percorso è l’elemento più controverso, e in qualche misura sconosciuto, con il quale e attraverso il quale ci confrontiamo. Sulla percezione del corpo sono stati scritti chilometri di bibliografie, nelle quali abbiamo avuto l’opportunità di navigare per mesi interi, a volte smarrendoci inesorabilmente.
Il faro che ci ha sempre riportati sulla retta via è stata l’esigenza di porre a noi stessi, alle artiste e agli artisti, e a tutte le persone che hanno l’opportunità di entrare in contatto con la mostra, un quesito. Se il corpo può essere rappresentato e interpretato in così tante modalità, non stiamo forse ammettendo che non esista un solo corpo, il solo che conosciamo?
Abbiamo quindi immaginato il corpo come uno spazio liminale, una soglia in cui le categorie e la norma si annullano, dove ogni prospettiva acquista legittimità di esistenza e dove il seme di nuove possibilità trova terreno fertile per crescere. Borderland rappresenta la tensione tra conosciuto e ignoto, un territorio di passaggio dove le strutture canoniche si scompongono, le certezze vacillano e il corpo si libera dai suoi confini statici per acquisire forme inedite, a tratti brutali e grottesche. L’intento sotteso è la necessità di far tremare l’imposizione di una e una sola significazione fissa di corpo, e quindi, d’identità.
Quali sono stati i criteri con cui hai scelto gli artisti per Borderland e in che modo le loro opere riflettono il tema centrale della mostra?
La ricerca delle artiste e degli artisti è stato un percorso lungo e accurato, durante il quale abbiamo avuto l’impressione che fossero loro a trovare noi, come una sorta di inevitabile richiamo reciproco. Il filo conduttore che li lega è l’audacia dei materiali che utilizzano: cera, pelle, porcellana, tessuto, grafite e persino cibo – media sperimentali e plasmabili, che assumono forme mutevoli e si piegano alla sensibilità di chi le lavora. Sono materiali che si oppongono in qualche misura alla solidità della tela, che non a caso continua ad affermarsi come medium privilegiato nelle grandi fiere d’arte. Queste opere, al contrario, si costruiscono su fragilità, trasformazione e decadenza, sfidando l’idea di una forma artistica immutabile. Invitano, chi le osserva, a cogliere le sfumature della loro metamorfosi: la luce che ne svela aspetti nascosti, il trascorrere del tempo che le conduce lentamente verso una mutazione o addirittura alla decomposizione. Ogni artista ha dato vita alla propria visione di metamorfosi corporea attraverso un’interpretazione a volte estetica, a volte metafisica, a volte estremamente personale, a volte necessariamente politica. Il risultato è un orizzonte costellato di possibilità, tutte poste sotto il segno della liberazione.
Parlaci un po’ di loro.
Le artiste e gli artisti coinvolti in Bordeland rappresentano uno spettro ampio di prospettive e approcci, attraverso linguaggi interdisciplinari. La ricerca artistica di Alice Bandini (1988, Nizza) si concentra sulle nozioni di “caduta”: indagando la storia e la temporalità della materia inerte, crea opere che interrogano il rapporto tra entropia e vanità umana. Per Borderland Alice ha creato una sorta di carcassa sospesa in pelle di bovino riciclata, con delle forme estremamente sinuose, che s’intersecano tra umano e animale. Michel Jocaille (1987, Lille), artista attualmente in residenza da POUSH, utilizza un’estetica kitsch e camp per esplorare temi legati alla fluidità di genere, attingendo a mitologie popolari e alla cultura drag. Gli ho proposto di intervenire con un’installazione sulla vetrina, così abbiamo selezionato insieme I had to fall to lose it all but in the end it doesn’t even matter, un’installazione modulabile che funge da portale, costellata di falene sotto kerosene e fiori con piercing annegati nella cera. Hugo Guérin (1990, Calmar) sviluppa la sua ricerca artistica intorno alla figura del mostro e dei corpi ibridi. Étapes de domestication (2022) è una scultura cruda, violenta, sia nel soggetto rappresentato che nei materiali di cui è costituita. La cera, trattata in modo magistrale, ha la stessa identica texture della pelle umana, ma appartiene ad una creatura senza una forma conosciuta, potrebbe essere un lupo, un cane, un essere umano in fase di trasformazione o un cyborg.
E poi sono lieta di presentare due artisti, che arricchiscono la selezione con un profilo internazionale. Sono particolarmente orgogliosa di includerli in Borderland, poiché per entrambi questa esposizione segna la loro prima (e sicuramente non l’ultima) mostra a Parigi. Lorenzo Conforti (1996, Tolentino), artista basato a Milano, la cui ricerca artistica prende in esame l’immaginazione: attraverso gesti formali, la struttura figurativa viene attraversata dalla materia, conferendo movimento e ritmo ad atmosfere indefinite, popolate da forme perturbanti. Ho chiesto a Lorenzo di realizzare un disegno site specific sulla parete, mi ha affascinato molto il suo background come writer e ho pensato che fosse un segno di fiducia lasciarlo intervenire in totale autonomia s’un intera parete. Irmak Dönmez (1989, Istanbul), presenta Pleasure Island, una scultura in porcellana che rappresenta un ambiente marino popolato da parti di corpo umano, che s’intersecano tra loro perdendo completamente le loro funzioni e creando così un’isola queer. Irmak realizza sculture che affrontano temi legati alla bio-politica, alle dinamiche di genere e alle teorie femministe e queer. Ci siamo conosciute ad Art Paris l’anno scorso, e mi ero ripromessa che quello non sarebbe stato il nostro ultimo incontro.
Davide Calabi e Yasmine Louali, si sono occupati dell’aspetto partecipativo della mostra, in che modo?
Uno degli aspetti che trovo più problematici nei vernissage ospitati all’interno di spazi white cube è la loro atmosfera volutamente inospitale e sterile, che spesso crea un senso di necessario distacco. Il silenzio, interrotto soltanto dal chiacchiericcio delle persone, e la distanza implicita tra il pubblico e le opere esposte generano una barriera invisibile. Si ha quasi la sensazione di essere continuamente osservati: i movimenti diventano più rigidi, l’osservazione dei dettagli si fa più difficoltosa e il senso di benessere che dovrebbe nascere dal piacere della visita, rischia di essere completamente soppiantato da una percezione di inadeguatezza. Per evitare questa dinamica, ho deciso di coinvolgere due artisti il cui lavoro avrebbe potuto trasformare lo spazio espositivo in un luogo congiunto e comunitario. Davide Calabi, sound designer e musicista, ha progettato per Borderland un paesaggio sonoro capace di intrecciare musicalità e immagine, esplorando come il suono possa evocare spazi, forme e atmosfere. Durante il vernissage, il soundscape da lui composto è stato riprodotto per tutta la serata, trasformando l’ambiente in uno spazio condiviso, favorendo il dialogo sia con i lavori esposti, sia tra le persone presenti. Parallelamente, Yasmine Louali ha presentato un’opera dal carattere rituale e profondamente relazionale. La sua pratica artistica, che interroga l’evoluzione del cibo da esperienza collettiva a gesto autonomo, ha preso forma in un intervento performativo che coinvolgeva direttamente i presenti. Durante il vernissage, il calco del suo corpo, realizzato in pasta di zucchero e plumcake, è stato offerto al pubblico per essere consumato, trasformando il gesto alimentare in un momento di riflessione condivisa sul significato e sul valore del nutrimento come atto comunitario.
Che cosa significa lavorare come curatrice per una mostra indipendente? Quale messaggio o memoria speri che Borderland possa trasmettere?
Durante la progettazione, le sfide sono state molteplici ma anche estremamente stimolanti. Lavorare su un progetto indipendente comporta il vantaggio e lo svantaggio di avere un budget limitato: una condizione che, se da un lato può risultare complessa, dall’altro rappresenta un’opportunità per stimolare la collaborazione. Abbiamo lavorato con un team meraviglioso che ha supportato il progetto sin da subito: siamo riusciti a realizzare una fanzine, strumento che ho scelto di curare – in collaborazione con Andrea Ceresa– con grande impegno, in segno di promessa a tutte le artiste e gli artisti di lasciare una traccia duratura del loro operato.
Lo spazio, Confort Mental, che ci ha ospitati è stato un elemento fondamentale che aggiunge valore all’intero progetto: si tratta di uno spazio con una forte personalità, capace di raccontare una storia propria. Sebbene non si trovi in una posizione centrale, ma in un quartiere di Parigi gentrificato negli ultimi anni, questo è immerso in una comunità viva e ricettiva, con cui è stato possibile avviare un dialogo significativo. Tutte le artiste e gli artisti hanno supportato il progetto con grande entusiasmo, rendendolo di fatto vitale.
Spero di poter portare e adattare Borderland anche in Italia, un contesto che, a mio avviso, necessita di un confronto aperto su tematiche legate al corpo e all’identità. Credo che l’arte abbia una funzione cruciale, quella di essere strumento di mediazione, capace di creare spazi significativi per la riflessione e il dialogo.