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La pittura dell’errore o viceversa: Pierluigi Febbraio in “Floproom”

Pierluigi Febbraio, Tentativo di rallentare, 2024, olio su tela, 119x181 cm
Pierluigi Febbraio, Tentativo di rallentare, 2024, olio su tela, 119×181 cm
Chi in questi giorni, fino al 13 dicembre, si trovasse a passare per la Galleria Romberg di Latina, avrebbe modo di imbattersi in una vera e propria stanza degli errori: “Floproom”, ultima mostra monografica di Pierluigi Febbraio. Gli errori, i fallimenti, i flop, dalla nostra società tanto negati, sfuggiti, nascosti, a volte rimossi come debolezze, quanto invece essenziali per ogni avanzamento e miglioramento di sé, e delle arti, o della scienza, diventano per l’artista innesco di riflessioni, soprattutto attraverso la pittura.

Dopo diversi anni di silenzio (o forse di cammino per altre strade incognite ai più), Febbraio sembra riprendere il filo della sua ricerca pittorica esattamente dal punto in cui lo avevamo lasciato, circondato da quei suoi personaggi così infantili e indifesi nel loro essere tragici e prigionieri delle loro manie: la combinazione di una pittura livida e monocromatica per rendere gli incarnati e invece una matericità pittorica più disordinata per raffigurare i tessuti, i vestiti, o quanto ci fosse di accessorio rispetto alla carne, era spesso accompagnata anche da un brulicare di visioni e tracce della psiche, spesso in forma di disegni infantili.

Pierluigi Febbraio, Floproom, courtesy Romberg

Nella sedicina di opere esposte – tra dittici, trittici e opere singole – è possibile notare continuità e sviluppi rispetto alla vecchia produzione: l’immagine fotografica è sempre l’innesco da cui parte il pittore, e in particolare immagini prese dal flusso informativo che scorre veloce e inesorabile online e nel web. Nel momento in cui oggi siamo vittime dell’illusione di vedere veramente le immagini infinite che passano sotto i nostri occhi, rapidissime, Febbraio pare dirci invece che quella illusione di visione è in realtà cecità, e solo spendendo del tempo su quelle immagini se ne può cogliere la verità, comprendendone realmente essenza e geometrie spirituali. Il trucco utilizzato è tradurle nel linguaggio della pittura, filtrandole attraverso la propria sensibilità e il proprio ascolto, e lasciando che la pittura ci aiuti a decifrarle, magari anche per tentativi e, appunto, errori e correzioni.
Così ogni immagine, quasi sempre personaggi e situazioni dell’assurdo quotidiano – figure intente in attività non decifrabili, colte in atteggiamenti vagamente inquietanti e non comprensibili – viene trasfigurata, reimmaginata progressivamente, parzialmente o in toto: a volte sono i corpi, il cui incarnato è reso sempre con una tavolozza monocromatica, a sfocarsi o sciogliersi attraverso la lente dell’intuizione; a volte sono i vestiti, gli arredi, il superfluo esistenziale, a espandersi, contrarsi o cristallizzarsi in superfici di colore saturo e definito con nettezza. Succede così che una manica si allarghi improvvisamente, diventando una sorta di buco nero, o che un piatto, un tavolo, risuonino di inattese analogie formali, o che i personaggi, ed è questo uno degli elementi più ammalianti ma anche disturbanti di questi dipinti, sembrino rimanere prigionieri – quasi incastrati – nelle forme e nei colori che la visionarietà dell’artista ha liberato dal visibile delle immagini fotografiche, percependo un mondo psichico invisibile, impalpabile ma palpitante.

Pierluigi Febbraio, Floproom, courtesy Romberg

Alla base della pittura di Febbraio, si intuisce poi una solida formazione, costruita sulla conoscenza di alcuni grandi maestri. Il modo in cui fotografia e pittura si relazionano, ricorda alla lontana quanto faceva Francis Bacon utilizzando spesso fotografie come punto di partenza per alcuni dipinti (peraltro anche i suoi personaggi erano in qualche modo imprigionati), mentre le aree di colore sono composte secondo un equilibrio, in termini di “peso” dei colori, alla Mondrian. Anche quella riduzione, o moltiplicazione, formale e cromatica del mondo in cui sono imprigionati i personaggi, ha un che di seducente che rammenta il linguaggio di un certo design.
La mostra, a cura di Italo Bergantini e Gaia Conti, è presentata come secondo capitolo della programmazione I diari della Domenica, e in dialogo con un testo inedito di Sara Alicandro.

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