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L’occidente sta perdendo la presa sull’arte contemporanea? Antonio Arévalo, Giovanni Gaggia, Anton Giulio Onofri

Antonio Arévalo, Giovanni Gaggia, Anton Giulio Onofri Antonio Arévalo, Giovanni Gaggia, Anton Giulio Onofri
Antonio Arévalo, Giovanni Gaggia, Anton Giulio Onofri
Antonio Arévalo, Giovanni Gaggia, Anton Giulio Onofri

Critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi riflettono sui nuovi protagonisti di una scena dell’arte contemporanea un tempo presidiata dall’Occidente

Sì, lo sappiamo bene, le categorie – Occidente, terzomondo, periferia – sono da tempo materia archiviata dal dominante globalismo. Da decenni il dilagare della comunicazione ha azzerato ogni distanza, garantendo ad artisti, critici, studiosi di ogni angolo del globo pari opportunità di intervenire nelle dinamiche socio-culturali. Una grandissima conquista di civiltà e di crescita. Eppure è sotto gli occhi di tutti che questo indispensabile riequilibrio sia presto sfuggito a logiche razionali, viziato da influenze ideologiche e politiche, che nei massimi sistemi nascondono sempre spinte finanziarie.

Fino agli anni Ottanta, inutile confutarlo, le redini del “sistema dell’arte” erano – salvo sporadiche eccezioni – saldamente nelle mani di attori che per semplicità definiremo “occidentali” (europei, anglo-americani). Dagli anni Novanta, grazie all’azione di diversi studiosi illuminati – Harald Szeemann, Jean-Hubert Martin, per citare qualcuno – sono iniziate ad emergere istanze “periferiche”, stimoli nuovi provenienti da realtà spesso ignorate, capaci di immettere ossigeno in un contesto non di rado asfittico e tendenzialmente autoreferenziale.

Risultati contrastanti

Negli ultimi anni, tuttavia, a questo salutare “revanchismo” si va sostituendo un meccanismo uguale e contrario al vizio originario. Oggi molti segnali sembrano voler affermare una aprioristica superiorità di quanto emerga da realtà vittime del lungo oblio. Con risultati spesso contrastanti, quando non del tutto scollegati all’oggetto fulcro di ciò che definiamo come “arti visive”, ovvero la qualità intrinseca di un’opera. Paradigmatico quanto avvenuto nel 2020, quando la seguitissima Power 100 List stilata dalla rivista ArtReview pose al primo posto il movimento Black Lives Matter. E gli esempi a conferma di questo trend sarebbero infiniti.

 

Harald Szeemann
Harald Szeemann

Anche la Biennale di Venezia, che resta il più importante evento internazionale per l’arte contemporanea, pare adeguarsi ai nuovi standard. Dopo una mostra ampiamente – per molti troppo – inclusiva come quella del brasiliano Adriano Pedrosa, ora arriva la direzione della camerunense Koyo Kouoh. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle capacità dei personaggi coinvolti, del resto avvalorate da importanti curriculum. Ma una domanda si impone: davvero gli “occidentali” hanno improvvisamente perduto ogni capacità di leggere la realtà contemporanea? Da qui avviamo un’inchiesta nella quale coinvolgeremo critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi. Certi di proporre un approccio provocatorio, e anche divertente…

Antonio Arévalo

L’arte indica la perdita di contesto o focus e include la propria contraddizione che implica un movimento contro il localismo. In realtà oggi il circuito artistico è sempre più globalizzato. Tuttavia, mantenerla sotto la guida dell’Occidente e all’interno dei confini delle istituzioni conosciute sarebbe ingenuo. Crea problemi ai regimi politici che sentono il bisogno di controllarla: si sentono minacciati da un libero flusso di informazioni e opinioni. Allo stesso tempo, è distorta da un mercato dell’arte le cui dinamiche non sono solo meccanismi economici che attraversano i confini culturali, ma strategie per incanalare la produzione artistica. Le riflessioni sulle dinamiche artistiche e culturali, e sulle società “periferiche”, portano, ad esempio, un importante storico come Gerardo Mosquera ad affermare che “la cosa migliore che può accadere all’arte latinoamericana è che smetta di essere tale”. A mio avviso questa affermazione contiene in sé una potente verità.

 

Gerardo Mosquera
Gerardo Mosquera

Giovanni Gaggia

Un eurocentrismo lungo secoli, un centro della scena politica e culturale che non c’è più, una stantia visione unilaterale sulla quale ci siamo accomodati. Girando il capo altrove, senza considerare che le geografie erano già cambiate. Il monarca che non accetta il cambiamento storico. Da amante della performance, uso questo linguaggio come esempio. È da tempo che nella nostra Italia la maggior parte delle proposte sono prive di urgenza, senza stomaco, manieriste, inutilmente narrative. Risultando spesso approssimative, fuori tempo, impotenti nel creare varchi verso mondi altri, con nessuno sguardo al futuro, sempre volte al passato. Ci hanno affiancato dozzine di artisti sudamericani, portatori di istanze importanti lasciandoci completamente intonsi.

Fino ad arrivare all’oggi, quando nell’ultima Biennale di Venezia si sono affermate numerose presenze interessanti, in particolare nell’azione, con una vicinanza alla danza contemporanea, quella che per me è la grande forma d’arte. Tra queste l’artista Joshua Serafin, il quale si confronta con le ferite lasciate dalla colonizzazione nelle Filippine sul corpo e sulla comunità. Una danza violenta con le viscere della terra, un rito capace di esorcizzare la violenza. Guardare fuori per ritrovare un centro in un interscambio costante e contaminato. Un nomadismo culturale che sia in grado di generare coralità interessanti, senza dominanti e dominati, ma coabitazioni creative orizzontali.

 

Joshua Serafin alla Biennale di Venezia
Joshua Serafin alla Biennale di Venezia

Anton Giulio Onofri

Io parlo da critico cinematografico. L’arte la frequento esclusivamente per diletto, antica o contemporanea che sia. Non mi perdo una Biennale, dunque ho ben presente il nocciolo della questione ventilata nell’articolo. Perciò dico che nel beatissimo secolo Venti, per quanto l’industria cinematografica fosse sostanzialmente europea e nordamericana, ai Festival (dove va chi ‘ama’ il cinema non chi ‘va’ al cinema) si vedevano capolavori di ogni altra nazionalità, che ci illuminavano sulle diverse culture dei loro paesi: alludo ai grandi autori giapponesi, cinesi, iraniani, indiani, turchi, africani, sudamericani, che spesso si portavano a casa i premi maggiori. Poi è caduto il Comunismo ed è arrivata la globalizzazione, e le cinematografie più povere hanno iniziato a usufruire del supporto economico e artistico dei Paesi più abbienti, col risultato che i film hanno iniziato ad assomigliarsi più o meno tutti, perché pensati e strutturati per piacere a “tutto il mondo”.

Credo che la stessa cosa sia avvenuta nell’arte. Se accanto ai giganti europei o americani del secolo scorso spuntava ogni tanto qualche nome “esotico”, nessuno si sognava di snobbarlo o sminuirlo, anzi. L’Occidente oggi tanto vituperato si arrogava, secondo me del tutto sensatamente e a ragione, il ruolo di selezionatore del bello allogeno proveniente “da fuori”, pronto a riconoscerne e a esaltarne tutti i meriti, a volte così straordinariamente vistosi.

 

Akira Kurosawa
Akira Kurosawa

Così come alla Mostra del Cinema di Venezia venivano premiati Kurosawa o Mizoguchi. L’evo attuale ha cambiato le carte in tavola, e il gioco è diventato meno avvincente, addirittura più prevedibile: per “chiedere scusa” (di cosa, poi?) a chi era, per “colpa” della Storia, o più semplicemente della natura degli eventi, rimasto indietro, si è cominciato ad inzeppare padiglioni in Fiere, Expo e Biennali di villaggi e villaggetti di capanne e canoe ricamati su canovacci o pittati a tempera su vassoi, come fino a qualche tempo fa si vendevano sulle bancarelle spacciati per “oggetti artistici” i souvenir con le riproduzioni di Botticelli, Michelangelo o Hayez da riportare in patria dopo un eventuale Grand Tour.

L’occhio omologato della Globalizzazione pialla, appiattisce, livella, e al cinema succede che film coreani o egiziani pensati e realizzati per risultare graditi a un pubblico internazionalizzato, non ci raccontano più nulla di autentico della loro cultura d’origine. E l’Occidente puntualmente premia con palme, leoni e coppe.

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