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L’occidente sta perdendo la presa sull’arte contemporanea? Matteo Binci, Giorgio Bonomi, Lucilla Catania

Matteo Binci, Giorgio Bonomi, Lucilla Catania Matteo Binci, Giorgio Bonomi, Lucilla Catania
Matteo Binci, Giorgio Bonomi, Lucilla Catania
Matteo Binci, Giorgio Bonomi, Lucilla Catania

Critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi riflettono sui nuovi protagonisti di una scena dell’arte contemporanea un tempo presidiata dall’Occidente

Sì, lo sappiamo bene, le categorie – Occidente, terzomondo, periferia – sono da tempo materia archiviata dal dominante globalismo. Da decenni il dilagare della comunicazione ha azzerato ogni distanza, garantendo ad artisti, critici, studiosi di ogni angolo del globo pari opportunità di intervenire nelle dinamiche socio-culturali. Una grandissima conquista di civiltà e di crescita. Eppure è sotto gli occhi di tutti che questo indispensabile riequilibrio sia presto sfuggito a logiche razionali, viziato da influenze ideologiche e politiche, che nei massimi sistemi nascondono sempre spinte finanziarie.

Fino agli anni Ottanta, inutile confutarlo, le redini del “sistema dell’arte” erano – salvo sporadiche eccezioni – saldamente nelle mani di attori che per semplicità definiremo “occidentali” (europei, anglo-americani). Dagli anni Novanta, grazie all’azione di diversi studiosi illuminati – Harald Szeemann, Jean-Hubert Martin, per citare qualcuno – sono iniziate ad emergere istanze “periferiche”, stimoli nuovi provenienti da realtà spesso ignorate, capaci di immettere ossigeno in un contesto non di rado asfittico e tendenzialmente autoreferenziale.

Risultati contrastanti

Negli ultimi anni, tuttavia, a questo salutare “revanchismo” si va sostituendo un meccanismo uguale e contrario al vizio originario. Oggi molti segnali sembrano voler affermare una aprioristica superiorità di quanto emerga da realtà vittime del lungo oblio. Con risultati spesso contrastanti, quando non del tutto scollegati all’oggetto fulcro di ciò che definiamo come “arti visive”, ovvero la qualità intrinseca di un’opera. Paradigmatico quanto avvenuto nel 2020, quando la seguitissima Power 100 List stilata dalla rivista ArtReview pose al primo posto il movimento Black Lives Matter. E gli esempi a conferma di questo trend sarebbero infiniti.

 

Harald Szeemann
Harald Szeemann

Anche la Biennale di Venezia, che resta il più importante evento internazionale per l’arte contemporanea, pare adeguarsi ai nuovi standard. Dopo una mostra ampiamente – per molti troppo – inclusiva come quella del brasiliano Adriano Pedrosa, ora arriva la direzione della camerunense Koyo Kouoh. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle capacità dei personaggi coinvolti, del resto avvalorate da importanti curriculum. Ma una domanda si impone: davvero gli “occidentali” hanno improvvisamente perduto ogni capacità di leggere la realtà contemporanea? Da qui avviamo un’inchiesta nella quale coinvolgeremo critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi. Certi di proporre un approccio provocatorio, e anche divertente…

Matteo Binci

Il sistema dell’arte contemporanea è storicamente un prodotto ideato e generato dall’Occidente per l’Occidente stesso, ed è stato esportato in altre nazioni solo raramente, almeno fino agli anni Novanta del Novecento. Il monopolio economico e politico permetteva un enorme consumo interno di prodotti culturali, alimentando un benessere che favoriva la nascita, il sostegno e la promozione di artisti e movimenti artistici. In questa fase, si è cercato principalmente di inglobare narrazioni altrui all’interno del monopolio linguistico  occidentale, senza considerare la concomitanza di ricerche artistiche eterogenee e storie dell’arte alternative.

La successiva globalizzazione ha consentito l’emergere di potenze economiche e politiche desiderose di condividere o affermare narrazioni linguistiche e artistiche differenti. Fino a quando l’Occidente ha mantenuto il primato nelle transazioni economiche e sull’egemonia politica, è riuscito ad ampliare il mondo dell’arte e ad arricchirsi nei nuovi mercati. Sebbene attraverso un processo di banalizzazione concettuale delle altre culture. Quando, per molteplici fattori finanziari, politici e demografici, ha perso questo primato, l’Occidente ha polarizzato ed estremizzato le risposte alla propria debolezza: da un lato, ha cercato di conservare i propri privilegi, scambiandoli per valori (come nel caso della “Fortezza Europa”), dall’altro ha intrapreso una ricerca ossessiva e una promozione acritica di nuovi linguaggi non occidentali, per generare nuovi prodotti e implementare il capitale circolante.

Oggi, pur rimanendo una figura centrale nel panorama globale dell’arte contemporanea, l’Occidente sta vivendo una crescente difficoltà nell’adattarsi ai cambiamenti del mondo attuale. Tuttavia, non sta perdendo il controllo sull’arte contemporanea, ma sta diventando parte di un dialogo globale molto più ampio e complesso. Quello che vediamo oggi non è una “perdita” in senso stretto, ma piuttosto un mutamento dei centri di produzione e valorizzazione dell’arte, con un maggiore pluralismo e una crescente considerazione delle diversità culturali e delle istanze locali. Le nuove geografie non sono solo rilevanti per la loro produzione artistica, ma anche per il modo in cui mettono in discussione le narrazioni dominanti. Proponendo alternative a un sistema globale che spesso sembra ancorato a logiche di esclusione e standardizzazione.

L’arte non dovrebbe essere semplicemente un prodotto sempre diverso da consumare in un mercato globalizzato, ma uno spazio di riflessione, trasformazione e critica. Da questo punto di vista, molte delle nomine citate nei precedenti articoli alla direzione di importanti istituzioni occidentali non rappresentano reali momenti di trasformazione. Le soggettività diasporiche e marginali, educate, cresciute, affermate e finanziate dal sistema dell’arte occidentale, si propongono come alternative al sistema stesso. Ma in realtà si rivelano una finzione per ampliarlo e consolidarlo, alimentando e utilizzando l’ego della curatela.

 

800mila visitatori alla Biennale Arte di VeneziaIl mutamento consisterebbe nel considerare e nel cambiare non solo il prodotto artistico, ma anche l’identità e il funzionamento dei mezzi e dei luoghi di produzione (biennali, musei, fondazioni, fiere, collezionismo…), tenendo presente che, accanto alle necessarie e giuste contrattazioni culturali riguardanti il genere e la provenienza, non bisognerebbe dimenticare la dimensione sociale e di classe di un sistema dell’arte che diventa sempre più multiculturalmente elitario.

Giorgio Bonomi

Il “tramonto” dell’arte dell’Occidente è conseguenza del “tramonto” dell’Occidente in generale, ratificato poco più di un secolo fa da Oswald Spengler, infatti l’arte è un elemento, con autonomia relativa, sovrastrutturale che dipende dalla struttura economico-politica. Come da sempre avviene nella storia, gli imperi nascono, si sviluppano e decadono. Gli imperi occidentali europei (Roma, Francia, Spagna, Germania, Russia ecc.) sono da tempo decaduti, uno dopo l’altro, sostituiti dall’impero occidentale americano. Ora anch’esso in decadenza e siamo in attesa dei prossimi imperi (cinese, indiano, forse africano?).

Così l’arte, il sistema dell’arte, occidentale dà segni di malattia, un po’ nei suoi fondamenti, un po’ per una certa demagogia populista che crede di espiare le “colpe” del passato con “invasioni” di artisti o critici cinesi o africani. La storia si evolve, i popoli in ascesa prendono il posto dei vecchi in crisi, ma come i barbari, dopo la conquista dell’impero romano, assimilarono il diritto romano, così i migliori artisti non “occidentali” “assimilano” l’arte occidentale che, senza sminuire l’arte di altri popoli e civiltà, è quella che maggiormente si è sviluppata.

Diceva Antonio Gramsci che le crisi peggiori si manifestano quando il vecchio ancora non è morto e il nuovo ancora non è nato. Ecco, oggi siamo in questo tipo di crisi, poi si vedrà, ma “di doman non v’è certezza”.

 

Antonio Gramsci, Jorit, Firenze
Antonio Gramsci, Jorit, Firenze

Lucilla Catania

Il modello occidentale ha fallito su tutti i fronti, sia quello pubblico che quello privato. Gli interessi dei pochi hanno vinto, (come sempre), sui destini dei molti, che soccombono. Potevamo come umani evoluti e informati fare altre scelte ma, colpevolmente, non abbiamo ricercato il necessario e auspicato cambiamento. Abbiamo invece ripercorso la stessa vecchia strada nefasta e tragica, infine, per le sue future conseguenze. E l’Arte? È il rispecchiamento di tutto ciò. Una macro società fondata sull’apparire e non sull’essere produce un’arte di analogo senso e forma.

L’Arte ridotta a mera merce di scambio e privata del suo intrinseco valore. Cosa fare, se qualcosa, si vuol fare? Costruire un gigantesco e incontenibile pensiero utopico, una nuova idealità che sia capace di riconnetterci con questo Mondo che il caso, o la dea Fortuna, ci ha donato nella sua interezza e totalità, senza barriere e senza esclusioni. L’artista ha il compito e il dovere di indicare possibili percorsi. Altrimenti chi?

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