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La gobba della discordia. Sulla fiction leopardiana della RAI

Una scena di Leopardi. Il poeta dell’Infinito Una scena di Leopardi. Il poeta dell’Infinito
Una scena di Leopardi. Il poeta dell’Infinito
Una scena di Leopardi. Il poeta dell’Infinito

Pregi e qualche difettuccio della fiction dedicata a Giacomo Leopardi, diretta da Sergio Rubini con Leonardo Maltese nel ruolo del Poeta

Un Leopardi dagli esiti alterni quello proposto dalla Rai, che ha polarizzato un pubblico in ogni caso premiante in termini di ascolti. Si è parlato di prodotto “for dummies”, di “parodia involontaria”, ma anche di “libera rilettura sfrondata dalla retorica” e “accattivante”. Non è mancato chi ha voluto vederci il “solito” ammiccamento all’universo Lgbt+. Una prevedibile pioggia di critiche e pareri si è insomma riversata sulla miniserie diretta da Sergio Rubini. Del resto, quando si tratta di mostri sacri e grandi icone, è quasi inevitabile che ognuno voglia – e forse debba – dire la sua.

Dichiaratamente e “liberamente ispirata” a eventi “rielaborati dagli autori a fini drammaturgici”, la fiction non ha risparmiato licenze e anacronismi, alcuni accettabili, altri più stridenti. Nel primo caso, salta all’orecchio la colonna sonora, con musiche di Respighi, Ravel e Debussy, oppure “‘A vucchella” di Tosti-D’Annunzio, scritta almeno settant’anni dopo i fatti narrati. Peccati veniali, tutto sommato.

Estenuato melodramma

Più problematica appare invece la seconda puntata, che vira decisamente verso l’estenuato melodramma del triangolo Leopardi-Fanny-Ranieri. Quest’ultimo viene presentato come l’amico che tutti vorremmo, magari solo un filino parassita; mentre, a rileggere i suoi “Sette anni di sodalizio”, egli appare non privo di ambiguità e doppiezze. In quelle memorie il napoletano non risparmia commenti poco lusinghieri sull’autore dei Canti, raccontando di abiti infestati di pidocchi, descrivendone i capricci e arrivando ad insinuare relazioni segrete con giovani ragazzi. E chi lo vorrebbe un amico così?

Ma tra i temi più dibattuti c’è la rappresentazione fisica del poeta. La scelta registica di un Leopardi (in tutti i sensi) a “schiena dritta” ha suscitato perplessità. Leonardo Maltese interpreta un protagonista emaciato e sofferente, ma privo delle deformazioni ossee causate dal morbo di Pott, una forma di tubercolosi extrapolmonare che nel poeta di Recanati si manifestò con una grave cifosi. La decisione di Rubini è stata motivata (e da alcuni apprezzata) come un tentativo di distogliere l’attenzione dal cliché di un uomo depresso e sfortunato, arrabbiato con la Natura matrigna per il carico di malanni con cui l’aveva gravato. Ma è una scelta che, d’altro canto, si presta insidiosamente ad essere tacciata di abilismo.

 

A. Ferrazzi, Giacomo Leopardi, 1820

Con la gobba o senza?

La questione è complessa: un trucco prostetico avrebbe davvero sottratto al personaggio la sua genialità, la sua irriverenza, il suo spirito trasgressivo? O avrebbe, semplicemente, restituito una condizione fisica che certamente influenzò il pensiero e la sensibilità di Leopardi? Il confronto con Il giovane favoloso di Martone è inevitabile: Elio Germano, curvo ma indomito, offriva una rappresentazione più vicina alla realtà, pur non esente da critiche per un certo oleografismo, specie nella parte napoletana. Forse, nel tentativo di allontanarsi dall’immagine stereotipata del conte marchigiano, la serie di Rubini ha paradossalmente finito per ridare centralità alla sua morfologia corporea, anche in absentia.

A pesare, probabilmente, è stato l’imperativo di proporre un prodotto moderno e “non polveroso” per la tv generalista. Dunque Giacomo è più “pop” con la gobba o senza?. Intanto, dopo santi, medici, sportivi, musicisti ed eroi antimafia, Rai Fiction sembra determinata a proseguire col filone dedicato agli scrittori. È già stato annunciato Zvanì, dedicato a Giovanni Pascoli, che si preannuncia un altro drammone dalle tinte malinconiche.

E poi? A chi toccherà? Chi sarà il prossimo? Azzardiamo: Alessandro Manzoni. Un Manzoni giovane e ardente, che mamma Giulia riporta all’ordine con un matrimonio ben congegnato? Oppure un Manzoni disilluso e nevrotico, agorafobico e beghino? Il quesito a quel punto sarà: lo facciamo balbettare o no, questo don Lisander? È noto infatti che l’autore dei Promessi Sposi soffrisse di disfluenza verbale, come ha ben ricordato (e scritto) Emanuela Fontana nel suo romanzo La correttrice. Quali indicazioni di regia riceverà l’attore chiamato a interpretare uno dei padri della lingua italiana? Come avrebbe detto il de cuius, ai posteri l’ardua sentenza.

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