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L’occidente sta perdendo la presa sull’arte contemporanea? Claudio Composti, Angel Moya Garcia, Giacomo Nicolella Maschietti

Claudio Composti, Angel Moya Garcia, Giacomo Nicolella Maschietti Claudio Composti, Angel Moya Garcia, Giacomo Nicolella Maschietti
Claudio Composti, Angel Moya Garcia, Giacomo Nicolella Maschietti
Claudio Composti, Angel Moya Garcia, Giacomo Nicolella Maschietti

Critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi riflettono sui nuovi protagonisti di una scena dell’arte contemporanea un tempo presidiata dall’Occidente

Sì, lo sappiamo bene, le categorie – Occidente, terzomondo, periferia – sono da tempo materia archiviata dal dominante globalismo. Da decenni il dilagare della comunicazione ha azzerato ogni distanza. Garantendo ad artisti, critici, studiosi di ogni angolo del globo pari opportunità di intervenire nelle dinamiche socio-culturali. Una grandissima conquista di civiltà e di crescita. Eppure è sotto gli occhi di tutti che questo indispensabile riequilibrio sia presto sfuggito a logiche razionali, viziato da influenze ideologiche e politiche, che nei massimi sistemi nascondono sempre spinte finanziarie.

Fino agli anni Ottanta, inutile confutarlo, le redini del “sistema dell’arte” erano – salvo sporadiche eccezioni – saldamente nelle mani di attori che per semplicità definiremo “occidentali” (europei, anglo-americani). Dagli anni Novanta, grazie all’azione di diversi studiosi illuminati – Harald Szeemann, Jean-Hubert Martin, per citare qualcuno – sono iniziate ad emergere istanze “periferiche”, stimoli nuovi provenienti da realtà spesso ignorate, capaci di immettere ossigeno in un contesto non di rado asfittico e tendenzialmente autoreferenziale.

Risultati contrastanti

Negli ultimi anni, tuttavia, a questo salutare “revanchismo” si va sostituendo un meccanismo uguale e contrario al vizio originario. Oggi molti segnali sembrano voler affermare una aprioristica superiorità di quanto emerga da realtà vittime del lungo oblio. Con risultati spesso contrastanti, quando non del tutto scollegati all’oggetto fulcro di ciò che definiamo come “arti visive”, ovvero la qualità intrinseca di un’opera. Paradigmatico quanto avvenuto nel 2020, quando la seguitissima Power 100 List stilata dalla rivista ArtReview pose al primo posto il movimento Black Lives Matter. E gli esempi a conferma di questo trend sarebbero infiniti.

 

Harald Szeemann
Harald Szeemann

Anche la Biennale di Venezia, che resta il più importante evento internazionale per l’arte contemporanea, pare adeguarsi ai nuovi standard. Dopo una mostra ampiamente – per molti troppo – inclusiva come quella del brasiliano Adriano Pedrosa, ora arriva la direzione della camerunense Koyo Kouoh. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle capacità dei personaggi coinvolti, del resto avvalorate da importanti curriculum. Ma una domanda si impone: davvero gli “occidentali” hanno improvvisamente perduto ogni capacità di leggere la realtà contemporanea? Da qui avviamo un’inchiesta nella quale coinvolgeremo critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi. Certi di proporre un approccio provocatorio, e anche divertente…

Claudio Composti

1989: al Centre Pompidou Jean-Hubert Martin cura la storica mostra Magiciens de la Terre, punto di riferimento per la storia dell’arte contemporanea africana. Un’indagine sul mondo con il chiaro desiderio di dare visibilità agli artisti non occidentali, tra gli oltre 100 invitati da cinque continenti. Da allora, le potenti estetiche afro-asiatiche sono esplose nel sistema dell’arte occidentale scardinandone la visione unilaterale. Artisti bravissimi come la vietnamita Tiffany Chung, i sudafricani Neo Matloga e Muholi Zanele, la nigeriana Njideka Akunyili Crosby o la giovane artista italiana Silvia Rosi, di origini togolesi, sono ormai artisti affermati che indagano le loro radici e temi di genere, identità o socio-politici. Segno del cambiamento de-coloniale che riguarda il continente africano insieme al movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.

Ha dunque l’Occidente perso la presa sull’arte contemporanea? Non proprio. Se da un lato, finalmente, l’integrazione culturale è imprescindibile, specchio dello Zeitgeist del momento, dall’altro “bisogna che tutto cambi perché nulla cambi”. Nuove linfe (ed economie) vanno così ad alimentare il mercato occidentale vecchio ed esausto. Ma gestito di fatto sempre da gallerie e musei europei o americani. Certo è che il soffitto di vetro nel mondo dell’arte istituzionale è stato definitivamente infranto con la nomina, per la prima volta, di due donne di origini afro in ruoli chiave.

L’afroamericana Naomi Beckwith alla guida di Documenta16 nel 2027, già vice direttrice e Chief Curator al Guggenheim Museum di New York. E la camerunense-svizzera Koyo Kouoh come direttrice artistica della prossima Biennale di Venezia 2026. Dal 2019 già Direttrice Esecutiva e Chief Curator dello Zeitz Museum of Contemporary Art Africa (Zeitz MOCAA) di Città del Capo, Sudafrica. Belle novità che non ci dovrebbero stupire. Ma è proprio quanto più la normalità lo fa che sottolinea quanto ne siamo lontani. Ed evidenzia quanto chi ignora la realtà del mondo, ancora non ha capito che, come si dice al tavolo da poker, se in 5 minuti non capisci chi è il pollo, il pollo sei tu.

 

Kero, Dipuo, Stennla le Slizer, 2022-24, Collage, charcoal, liquid charcoal, soft pastel and ink on canvas, 210 x 200cm, © Neo Matloga, Courtesy of Stevenson
Kero, Dipuo, Stennla le Slizer, 2022-24, Collage, charcoal, liquid charcoal, soft pastel and ink on canvas, 210 x 200cm, © Neo Matloga, Courtesy of Stevenson

 

Angel Moya Garcia

Le istanze diversificate sono emerse prepotentemente nell’ultimo decennio da un profondo senso di colpa occidentale e, soprattutto, dal bisogno generalizzato di compensare e capovolgere i privilegi atavici, il colonialismo, il dominio e il fuorviante binomio potenza economica/supremazia intellettuale che ha caratterizzato gran parte della storia, scritta prevalentemente non a caso proprio da autori occidentali. Tuttavia, la necessaria e improrogabile attenzione rivolta ai margini, agli esclusi e alle minoranze culturali, sociali, di genere, di razza o di provenienza geografica non sempre raggiunge un esito incisivo, una concettualizzazione o una formalizzazione che possa aggiornare o mutare una serie di esigenze collettive in cui ogni individuo riesca a mettere in discussione lo sguardo che finora è stato dominante.

Sebbene spesso le diverse emergenze rimangano lontane da diversi curatori o critici che preferiscono presentare un turismo antropologico o un colonialismo di ritorno piuttosto che attuare o indagare altri sguardi, altre panoramiche o altre visioni, la questione è se un determinato modello di attuare la compensazione, come ad esempio nell’ultima Biennale, possa risultare controproducente. Temo che stiamo assistendo alla creazione di una matassa parallela di proposte che raramente si incrocia, ma che si sovrappone, a quella che conosciamo, a quella a cui siamo abituati, presentata spesso attraverso eventi occasionali invece che come un ripensamento strutturale del sistema.

Infatti, il gioco delle sostituzioni degli attori in campo, senza nessun reale cambio delle regole, dei contesti, dei parametri nelle scelte e senza nessuna sistemica educazione sull’alterità, prevale sulla legittimazione di un nuovo paradigma che possa contribuire, finalmente, alla rottura definitiva dei vecchi e obsoleti modi di pensare e di vedere.

 

Jean-Hubert Martin
Jean-Hubert Martin

Giacomo Nicolella Maschietti

L’impressione che l’arte occidentale sia succube di un sostanziale senso di colpa c’è. D’altronde è uno dei fondamenti della cultura cristiana. Come se il reflusso del colonialismo ci facesse sentire costantemente ed inevitabilmente colpevoli. È una dinamica complessa che permea il sistema dell’arte contemporanea occidentale e non solo, la cultura tutta si può dire. È indubbio che molte istituzioni, biennali e fiere d’arte negli ultimi decenni abbiano cercato di ampliare i propri orizzonti includendo artisti provenienti da Africa, Asia, America Latina e altre aree storicamente marginalizzate dal circuito globale dell’arte. Questo fenomeno può essere letto in modi diversi, a seconda della prospettiva.

Il colonialismo ha avuto un impatto devastante non solo sulle economie e sulle società, ma anche sulla rappresentazione culturale. Il senso di colpa potrebbe essere uno dei motori che spingono le istituzioni occidentali a includere voci non occidentali. Ma è altrettanto vero che c’è una crescente consapevolezza dell’importanza di rivedere il canone dell’arte per dare spazio a narrazioni altrettanto valide. Il pubblico e gli artisti stessi richiedono oggi racconti più inclusivi.

Tuttavia c’è un pericolo (fondato, viste le ultime tre o quattro Biennali di Venezia) che questo approccio scivoli pericolosamente nel tokenismo. Cioè nel selezionare artisti non occidentali solo per soddisfare una sorta di quota morale o politica, senza un reale interesse per il contenuto delle loro opere. Personalmente credo sia più una questione di doveri morali che altro, perché molta dell’arte non occidentale in realtà ricalca con ritardo stilemi che qua si sono già visti. Il rischio che molte pratiche artistiche non occidentali, pur presentandosi come esotiche o alternative, finiscano per essere assimilate a uno schema estetico già consolidato in Occidente. Questo accade per due ragioni principali: innanzitutto gli artisti provenienti da contesti non occidentali spesso si formano in scuole d’arte occidentali o sono influenzati dai paradigmi estetici del mercato globale, che hanno origine in Europa o negli Stati Uniti.

Questo porta a un ritardo o a una rielaborazione degli “stilemi” già esplorati altrove. Una dinamica che, paradossalmente, rafforza il primato occidentale anche quando si cerca di decentrarlo. Il mercato occidentale, infine, sembra chiedere all’arte contemporanea di essere esotica, ma in un modo assolutamente commestibile e commerciabile per i suoi gusti. Questo porta tragicamente ad un’omologazione del linguaggio visivo, dove l’autenticità culturale si perde a favore di una sorta di universalizzazione estetica. L’inclusività ha valore solo se si traduce in un reale scambio culturale, altrimenti sono slogan buoni per le multinazionali.

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