
Hanno attraversato gli anni Ottanta come luminose comete, e dopo il loro passaggio, il cinema e la pubblicità sono cambiati per sempre. Parliamo del regista americano David Lynch (1946-2025) e del fotografo italiano Oliviero Toscani (1942-2025), entrambi scomparsi all’inizio di quest’anno. Coetanei, coraggiosi, visionari, capaci di dettare nuovi parametri che hanno fatto sembrare la cultura visiva precedente anacronistica e superata.

Dopo una giovinezza da pittore, Lynch si interessa al cinema dalla fine degli anni Sessanta. Dopo alcuni cortometraggi, realizza il suo primo film, Eraserhead (1977), una pellicola sperimentale in bianco e nero, che racconta un mondo di visioni psichedeliche intorno a una creatura mostruosa. Se all’epoca fosse stato considerato impossibile da distribuire, oggi è considerato un capolavoro, che contiene in nuce tutti gli elementi inquietanti e ossessivi della ricerca di Lynch, legata a temi difficili e stranianti. Nel 1980 esce The Elephant Man, la storia di un uomo deforme vissuto nell’Inghilterra vittoriana, che appassiona il mondo intero, mietendo successi di critica e pubblico.
Al contrario, Dune (1984), il kolossal di fantascienza, si rivela un clamoroso insuccesso. Va meglio con Blue Velvet (1986), che anticipa il capolavoro di Lynch, capace di rivoluzionare per sempre il cinema: parliamo della serie televisiva Twin Peaks (1990), che scardina tutte le regole di composizione dell’immagine, il rapporto tra narrazione e personaggi, la contaminazione tra realtà e finzione, grottesco e thriller, musica e recitazione. Un’opera che inaugura modalità di trattamento dell’immagine destinate a ispirare centinaia di registi e artisti contemporanei di tutto il mondo.
Una forza rivoluzionaria che possiamo ritrovare nella personalità di Oliviero Toscani, figlio del fotoreporter Fedele Toscani, che ha iniziato la sua carriera di fotografo giovanissimo, pubblicando uno scatto sul Corriere della Sera a soli 14 anni. Negli anni Settanta comincia a lavorare nella pubblicità, e nel 1973 firma la campagna per i jeans Jesus, una delle più controverse del decennio, censurata dalla Chiesa per il suo contenuto blasfemo.

Dopo aver lavorato nella moda con marchi come Valentino, Chanel, Fiorucci e collaborato con magazine come Elle, Vogue, GQ e Harper’s Bazaar, nel 1982 Toscani inizia la sua collaborazione più fortunata con l’azienda Benetton, per la quale realizza campagne innovative, non legate al prodotto da commercializzare, ma a tematiche come la mafia, la lotta all’omofobia, il contrasto al diffondersi dell’AIDS, la ricerca della pace e l’abolizione della pena di morte. Con immagini forti e dirette, spesso brutali, mirate alla sensibilizzazione sociale, Toscani crea un immaginario che affonda le radici nel realismo dei dipinti di artisti come Grünewald, Caravaggio, Holbein o Goya.
Dieci anni dopo, fonda la rivista di cultura visiva Colors, e nel 1993 partecipa alla Biennale di Venezia, prima di fondare Fabrica, centro internazionale per le arti e la ricerca della comunicazione moderna, la cui sede è stata progettata dall’architetto giapponese Tadao Andō a Ponzano Veneto. Alla fine degli anni Novanta, abbiamo lavorato insieme per la mostra Oliviero Toscani al Muro, ospitata al Museo delle Arti e Tradizioni Popolari all’Eur, nel 1999.
Ricordo la sua insistenza nel voler far posare nudi alcuni esponenti dell’Amministrazione Capitolina per dei grandi banner che voleva collocare sulla facciata del museo, e anche l’entusiasmo nel parlare di un progetto multidisciplinare che voleva proporre a Peter Gabriel e Philip Stark. Oliviero era un sognatore e un visionario, e come David Lynch non aveva nessun interesse per il consenso facile, ma lottava come un leone per realizzare i suoi sogni, senza limiti e senza rete.