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L’occidente sta perdendo la presa sull’arte contemporanea? Giovanni Frangi, Adrian Paci, Massimo Scaringella

Giovanni Frangi, Adrian Paci, Massimo Scaringella Giovanni Frangi, Adrian Paci, Massimo Scaringella
Giovanni Frangi, Adrian Paci, Massimo Scaringella
Giovanni Frangi, Adrian Paci, Massimo Scaringella

Critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi riflettono sui nuovi protagonisti di una scena dell’arte contemporanea un tempo presidiata dall’Occidente

Sì, lo sappiamo bene, le categorie – Occidente, terzomondo, periferia – sono da tempo materia archiviata dal dominante globalismo. Da decenni il dilagare della comunicazione ha azzerato ogni distanza, garantendo ad artisti, critici, studiosi di ogni angolo del globo pari opportunità di intervenire nelle dinamiche socio-culturali. Una grandissima conquista di civiltà e di crescita. Eppure è sotto gli occhi di tutti che questo indispensabile riequilibrio sia presto sfuggito a logiche razionali, viziato da influenze ideologiche e politiche, che nei massimi sistemi nascondono sempre spinte finanziarie.

Fino agli anni Ottanta, inutile confutarlo, le redini del “sistema dell’arte” erano – salvo sporadiche eccezioni – saldamente nelle mani di attori che per semplicità definiremo “occidentali” (europei, anglo-americani). Dagli anni Novanta, grazie all’azione di diversi studiosi illuminati – Harald Szeemann, Jean-Hubert Martin, per citare qualcuno – sono iniziate ad emergere istanze “periferiche”, stimoli nuovi provenienti da realtà spesso ignorate, capaci di immettere ossigeno in un contesto non di rado asfittico e tendenzialmente autoreferenziale.

Risultati contrastanti

Negli ultimi anni, tuttavia, a questo salutare “revanchismo” si va sostituendo un meccanismo uguale e contrario al vizio originario. Oggi molti segnali sembrano voler affermare una aprioristica superiorità di quanto emerga da realtà vittime del lungo oblio. Con risultati spesso contrastanti, quando non del tutto scollegati all’oggetto fulcro di ciò che definiamo come “arti visive”, ovvero la qualità intrinseca di un’opera. Paradigmatico quanto avvenuto nel 2020, quando la seguitissima Power 100 List stilata dalla rivista ArtReview pose al primo posto il movimento Black Lives Matter. E gli esempi a conferma di questo trend sarebbero infiniti.

 

Harald Szeemann
Harald Szeemann

Anche la Biennale di Venezia, che resta il più importante evento internazionale per l’arte contemporanea, pare adeguarsi ai nuovi standard. Dopo una mostra ampiamente – per molti troppo – inclusiva come quella del brasiliano Adriano Pedrosa, ora arriva la direzione della camerunense Koyo Kouoh. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle capacità dei personaggi coinvolti, del resto avvalorate da importanti curriculum. Ma una domanda si impone: davvero gli “occidentali” hanno improvvisamente perduto ogni capacità di leggere la realtà contemporanea? Da qui avviamo un’inchiesta nella quale coinvolgeremo critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi. Certi di proporre un approccio provocatorio, e anche divertente…

Giovanni Frangi

Da sempre il confine dell’arte è stato aperto ad altri orizzonti. Dall’inizio del secolo scorso quante sono le storie europee o occidentali contaminate da culture differenti dalla nostra? Basta pensare a Gauguin, a Picasso, al suo amore per l’arte africana, oppure a Boetti e Ontani che hanno guardato l’Oriente trovando in quei paesi nuovi argomenti. Ma ho dei dubbi. L’attrazione delle istituzioni che contano, da Kassel a Venezia, che oggi sembrano essere un’attrazione obbligata, sia in realtà solo un modo di mascherare una superiorità culturale o un senso di colpa. Mi suona stonato. Forse dietro questo interesse non è che l’occidente ha bisogno di lavarsi la coscienza?

Insomma, non mi convince. Bisogna per forza avere in questo caso anche qui le quote? Non possiamo fare finta di vedere o di capire la realtà da un altro buco della serratura. Il punto di vista è il nostro e noi guardiamo da li il mondo. Come del resto Boetti e Ontani, per dire, hanno rubato mischiando le carte e creando cosi il “nuovo” ma pur sempre dal nostro punto di vista. Non possiamo illuderci di riuscire a mettere a fuoco qualcosa di cui non conosciamo la lingua, le sfumature e sbagliamo la pronuncia.

 

''Da dove veniamo Chi siamo Dove andiamo'', 1897, Paul Gauguin
”Da dove veniamo Chi siamo Dove andiamo”, 1897, Paul Gauguin

Adrian Paci

Parlare di come l’occidente stia perdendo o meno la presa sull’arte contemporanea non è un argomento che mi appassiona. Insegno arte da più di vent’anni e quando sono davanti a giovani artisti che mi presentano spesso dei progetti bellissimi, lavori a volte fragili ma preziosi, faccio fatica a vederli come rappresentanti futuri dell’arte occidentale che sta guadagnando o perdendo la presa. Sappiamo bene che il mondo si regge su un sistema di potere che vede un concentramento della ricchezza nelle mani delle economie occidentali; anche politicamente e militarmente l’occidente ancora domina il pianeta.

Che il sistema dell’arte sia complice di questo sistema mi sembra ovvio, che nel frattempo ci siano tentativi, a volte profondi e a volte meno, di mettere in discussione questo dominio lo trovo salutare. In questa messa in discussione gioca un ruolo sia una dinamica nuova di sviluppo nei paesi non occidentali che un crescente senso di autocritica e autopunizione in certi ambienti culturali occidentali. Guadagnare o perdere potere sicuramente fa parte della logica del funzionamento del sistema nel quale operiamo, ma dal punto di vista artistico e intellettuale lo trovo poco interessante. Cosi come trovo problematico che anche quando il sistema vuole guardare fuori, quel fuori si cerca dentro. Cioè si coinvolgono artisti che provengono da paesi periferici ma che operano nei centri del sistema occidentale, curatori di provenienze etniche dal sud del mondo che però hanno costruito la loro carriera in occidente.

In questo tentativo a volte sincero e autentico e a volte modaiolo dell’occidente di aprirsi ad altre narrative quelli che rischiano di perdere presa sono spesso le periferie che si trovano fuori sia da i veri centri di potere occidentale e sia da queste zone di attrazione dove si cerca di pescare quell’alterità che rinnova il sistema. Forse invece di cercare di includere figure non occidentali nelle mostre che tradizionalmente hanno segnato il dominio della narrazione occidentale dell’arte come la Biennale di Venezia o Documenta, conviene semplicemente mostrare più curiosità, apertura e sincero interesse verso le realtà artistiche che nascono e si sviluppano oltre i territori del potere per capire meglio le dinamiche e riflettere sulla freschezza e le nuove modalità che loro possono offrire.

 

La Biennale di Venezia

Massimo Scaringella

Negli ultimi trent’anni la mia curiosità sul fare contemporaneo mi hanno portato a viaggiare nel mondo più particolarmente tra Africa e Sud America. Ma non sono mancate, oltre che in Italia, escursioni in Europa e in Asia. Contemporaneamente si sono sviluppate in tutto il mondo iniziative, come mostre in importanti musei, Biennali internazionali, fiere, residenze e workshop, ma anche la formazione di nuove collezioni dedicate a volte a far comprendere la produzione culturale degli artisti provenienti dall’Africa, dal Sud America, e/o da paesi che fino ad ora erano rimasti al margine di quello che si potrebbe chiamare il Sistema dell’Arte. Come abbondantemente codificato dall’ultima Biennale di Venezia, in ciò, secondo me, amplificando certi conflitti che non sono tra i singoli creativi ma negli intenti speculativi del Mercato.

A questo ha contribuito non poco la diaspora, spesso dura, che coinvolge i creativi provenienti in alcune aree del cosiddetto Terzo Mondo, ma ha anche permesso di conoscere artisti di grande spessore, che sperimentano così nuovi percorsi estetici e nuovi strumenti per far comprendere la loro genialità. In questo modo riconosciamo in questi artisti, non solo una questione estetica, ma anche sicuramente una valenza sociale e politica legata all’identità peculiare dei Sub Continenti. Quindi dobbiamo stare molto attenti a definire artisti primari e/o secondari. Quando a decidere non è la qualità o la storia di ognuno ma la forza economica di chi propone così da costruire delle carriere effimere. E stare molto attenti, appunto come è successo a Venezia 24 addirittura creare, in una società che è piena di conflitti seri (guerre, catastrofi naturali, etc) aggiungere altri conflitti con la divisione tra categorie sociali con cui sembravano selezionati gli artisti.

I ruoli molto diversi che l’arte e i suoi attori hanno ricoperto nel corso della storia, con la loro crescente autonomia progressiva di funzioni e spazi sociali, ci hanno portato a dimenticare la natura etica della pratica estetica. Ma in un mondo percepito come in grado di crisi sempre crescente, molti artisti sentono l’obbligo inevitabile di recuperare quella natura, manifestando un atteggiamento nei confronti dell’arte e della società pienamente responsabile. Ne leggono e ne interpretano le valenze politiche, e come sempre elaborano il loro linguaggio espressivo per cercare soluzioni, per dare risposte o comunque denunciare quello che gli altri non vedono.

Ma questo atteggiamento consapevole li porta sempre a volgere comunque lo sguardo verso le loro radici, verso la loro memoria. Ricerca di riferimenti. Ricerca di identità. E ricerca di energie rigeneratrici per proteggersi dagli altri e da loro stessi in un mondo che non ha più rispetto per nulla, che fa morire l’ambiente, che fa morire la vita, che sogna di distruggere la terra per una vita su Marte superando l’assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. Ma il loro lavoro, in cui si parla di continuità e trasformazione, trasforma in un modo viscerale l’arte in una funzione di rinascita.

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