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L’occidente sta perdendo la presa sull’arte contemporanea? Giorgio de Finis, Stefania Galegati, Elena Mazzi

Giorgio de Finis, Stefania Galegati, Elena Mazzi Giorgio de Finis, Stefania Galegati, Elena Mazzi
Giorgio de Finis, Stefania Galegati, Elena Mazzi
Giorgio de Finis, Stefania Galegati, Elena Mazzi

Critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi riflettono sui nuovi protagonisti di una scena dell’arte contemporanea un tempo presidiata dall’Occidente

Sì, lo sappiamo bene, le categorie – Occidente, terzomondo, periferia – sono da tempo materia archiviata dal dominante globalismo. Da decenni il dilagare della comunicazione ha azzerato ogni distanza, garantendo ad artisti, critici, studiosi di ogni angolo del globo pari opportunità di intervenire nelle dinamiche socio-culturali. Una grandissima conquista di civiltà e di crescita. Eppure è sotto gli occhi di tutti che questo indispensabile riequilibrio sia presto sfuggito a logiche razionali, viziato da influenze ideologiche e politiche, che nei massimi sistemi nascondono sempre spinte finanziarie.

Fino agli anni Ottanta, inutile confutarlo, le redini del “sistema dell’arte” erano – salvo sporadiche eccezioni – saldamente nelle mani di attori che per semplicità definiremo “occidentali” (europei, anglo-americani). Dagli anni Novanta, grazie all’azione di diversi studiosi illuminati – Harald Szeemann, Jean-Hubert Martin, per citare qualcuno – sono iniziate ad emergere istanze “periferiche”, stimoli nuovi provenienti da realtà spesso ignorate, capaci di immettere ossigeno in un contesto non di rado asfittico e tendenzialmente autoreferenziale.

Risultati contrastanti

Negli ultimi anni, tuttavia, a questo salutare “revanchismo” si va sostituendo un meccanismo uguale e contrario al vizio originario. Oggi molti segnali sembrano voler affermare una aprioristica superiorità di quanto emerga da realtà vittime del lungo oblio. Con risultati spesso contrastanti, quando non del tutto scollegati all’oggetto fulcro di ciò che definiamo come “arti visive”, ovvero la qualità intrinseca di un’opera. Paradigmatico quanto avvenuto nel 2020, quando la seguitissima Power 100 List stilata dalla rivista ArtReview pose al primo posto il movimento Black Lives Matter. E gli esempi a conferma di questo trend sarebbero infiniti.

 

Harald Szeemann
Harald Szeemann

Anche la Biennale di Venezia, che resta il più importante evento internazionale per l’arte contemporanea, pare adeguarsi ai nuovi standard. Dopo una mostra ampiamente – per molti troppo – inclusiva come quella del brasiliano Adriano Pedrosa, ora arriva la direzione della camerunense Koyo Kouoh. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle capacità dei personaggi coinvolti, del resto avvalorate da importanti curriculum. Ma una domanda si impone: davvero gli “occidentali” hanno improvvisamente perduto ogni capacità di leggere la realtà contemporanea? Da qui avviamo un’inchiesta nella quale coinvolgeremo critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi. Certi di proporre un approccio provocatorio, e anche divertente…

Giorgio de Finis

Se la domanda muove dalla preoccupazione che l’Occidente perda una sua primazia, ci terrei a tranquillizare tutt*. Purtroppo non è così. La presenza sempre più numerosa di artisti provenienti da aree geografiche del mondo fino a pochi decenni fa escluse dal “contemporaneo” (indubbia invenzione occidentale) è solo il normale effetto di quella che chiamiamo globalizzazione. Che è, non dimentichiamolo, l’esito di un processo iniziato con le grandi “scoperte” geografiche, le sue razzie e i suoi stermini, e proseguito con schiavitù, colonialismo, imperialismo, razzismo, un modello mai superato, nonostante, è bene ricordarlo, l’Occidente abbia generato al suo interno anche pensieri e paradigmi contrari allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna, dell’uomo sulla natura, del padrone sul lavoratore…

Le grandi esposizioni internazionali d’arte, è vero, sono sempre più attraversate da moltitudini di artisti e artiste (di cui però raramente ricordiamo il nome) che ci chiedono di guardarci allo specchio e riconoscere che in fondo il pregiudizio, la violenza, la sopraffazione riguardano anche noi, le nostre scelte quotidiane, anche quelle “in buona fede”, perché non essere consapevoli non è mai una giustificazione. Ma questo avviene dentro mostre che sono organizzate ancora per padiglioni nazionali, all’interno di grandi eventi che alimentano l’overturism, finanziate da operatori partecipi di un’economia estrattivista che si è fatta forza geologica. Dunque l’Occidente non solo non perde la primazia, ma si dimostra capace di accogliere le critiche più dure e appenderle con soddisfazione in salotto. Benvenga se condite un po’ di esotismo, che non ha mai disdegnato.

Sarebbe utile e di grande interesse indagare il ruolo che hanno giocato i manufatti “sradicati” che giungevano in Europa dalle terre lontane e che alimentavano insieme ad altre stranezze le prime wunderkammern, nel generare quella che è la caratteristica dell’arte moderna e contemporanea, vale a dire la sua “autonomia”, il suo essere separata da tutto il resto della vita socio-culturale di un popolo, la natura “aliena” che continuiamo a ricercare e a celebrare anche quando stanchi di isolamento e solitudini ci rivolgiamo a forme artistiche più legate ai contesti d’appartenenza.

 

Linda Nochlin
Linda Nochlin

Stefania Galegati

La domanda così posta mi crea difficoltà e mi ricorda vagamente: Perché non ci sono state grandi artiste? (Nochlin).
E’ un linguaggio che per me ha poco a che fare con l’arte: le metafore della presa, l’occidente, perdere… tutti termini che rimandano a guerre. Perché dobbiamo vedere l’arte come oggetto di conquista? Qualsiasi cosa si risponda ci si infila in quell’immaginario lì.
Allora provo a cavarmela spostando lo sguardo verso la lingua madre e facendo una lista di cose sparse:
-non può esistere una risposta giusta a una domanda implicitamente corrotta.
-poi includerei le artiste donne nel discorso, emarginate in casa per tanti secoli.
-vedere uno stuoino da spiaggia appeso in biennale non mi ha fatto sentire adeguata.
-il mercato e l’arte sono intricati, interconnessi, fanno i giochi grandi e muovono energie e decidono del valore economico e sociale delle cose.
-se penso al mercato dell’arte penso a un imbuto.
-desidero spostare lo sguardo, senza la ‘presa’.
-ieri ho detto a una amica: dobbiamo scegliere le nostre battaglie. Mannaggia al linguaggio, anch’io.
-desidero ancora cercare la meraviglia.
-scelgo di moltiplicare gli immaginari, mentre ringrazio della mia esistenza.
-ringrazio anche il tramando dell’arte.
-il sistema è enorme e complicato, il sistema siamo anche noi che lo camminiamo sui bordi.
-sogno ancora.
-sogno di stare ancora nel tempo giusto.
-io sogno che gli oggetti, le relazioni e lo sguardo nell’arte, siano sempre erotici e misteriosi.
-nelle relazioni includo anche il mercato.
-preferisco continuare a liberarmi degli abiti.
-desidero che il mercato non sia un tabù e che si dica e ridica e trasformi, che le artiste guadagnano ancora molto meno degli artisti.
-non metterei confini politici all’arte, i fiumi, le montagne e i mari possono essere confini.
-sogno un mercato più ampio, l’imbuto al contrario, dove possono stare tutte.
-gli eroi, i premi, i maestri, i geni, li metterei in una scatola chiusa.
-le maestre.
-sognare e immaginare è l’inizio della trasformazione
-san Francesco dopo che ringrazia il sole la luna il vento il fuoco l’acqua… etc. ringrazia la morte.

 

Ariella Aïsha Azoulay
Ariella Aïsha Azoulay

Elena Mazzi

Se stiamo ancora ragionando in termini dualistici (noi – loro), allora significa che c’è ancora molto lavoro da fare, e purtroppo è così. Più che parlare di occidente – oriente – nord – sud – est – ovest, dovremmo cercare di capire come gestire l’accelerazione alla globalizzazione di questi ultimi decenni. Non è sufficiente dare una vetrina a paesi marginalizzati all’interno delle grandi istituzioni occidentali, serve iniziare a lavorare insieme, a dialogare e confrontarci collettivamente sul nostro passato, presente e futuro. Credo che questo stia lentamente iniziando ad avvenire.

Negli ultimi anni ho lavorato in Argentina in dialogo con l’artista Eduardo Molinari e con il lonko (autorità politica e spirituale) e retrafe (argentiere) Mauro Millán. Spesso, durante i nostri dialoghi ci siamo chiesti come poter organizzare il compito comune di costruire ponti che ci permettano di incrociarci e entrare in contatto, avvicinarci e – senza perdere le nostre singolarità – condividere storie, immaginari, cosmovisioni. Come possiamo aprire strade verso nuovi mondi possibili che siano inclusivi, egualitari, interculturali, rispettosi della diversità della vita?

Tante sono le personalità, più o meno legate all’arte contemporanea, che negli ultimi anni si sono fatte queste domande. Mi riferisco a Ariella Aïsha Azoulay, Alberto Acosta e Viveiros de Castro, per citarne alcuni. E’ necessario mettere in discussione come le istituzioni culturali contemporanee preservano pratiche separative e neo-estrattiviste, e ripensare a come le mostre e le politiche espositive possano invece attivare processi di mediazione, di ricomposizione e di guarigione come contromisure alla perpetuazione delle narrazioni coloniali.

Ho approfondito, insieme al curatore Emanuele Guidi, in questo articolo: https://doi.org/10.1344/regac2024.10.47186

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