
L’ultimo libro di Angelo Capasso analizza i legami tra l’estetica e il modo di parlare delle opere d’arte
“La fortuna del critico militante appare ormai interamente affidata alle risorse di un ambito e di una vicenda personali di sforzo e di penetrazione in vista di una verità personale da raggiungere”. Così Carla Lonzi chiudeva il suo memorabile intervento dalle pagine dell’Avanti! nel 1963, delineando la una missione che è anche sforzo intrinseco della parola ad avvicinarsi, per affinamento linguistico, a una coerenza oggettiva. Sicché le elaborazioni di tecniche, che chiamiamo opere d’arte vengono restituite dalla parola critica a una nuova vitalità denunciando, come direbbe ancora Lonzi: “[…] la caduta dei miti sociali, delle contrapposizioni di culture, di frontiere, di tradizioni. Perciò, raccogliendo la provocazione di Barnett Newman che affermò: “L’estetica è utile all’artista come l’ornitologia lo è agli uccelli”, potremmo dire che la critica d’arte è un modo per raccontare l’ornitologia con la lingua degli uccelli.
Il libro di Angelo Capasso Cosa dire. Manuale di critica d’arte è, in sostanza, proprio questo. L’analisi dei legami tra l’estetica e il modo di parlare delle opere d’arte. Il “dire d’arte” è il fulcro di questo volume edito da Grenelle, la casa editrice lucana che continua a fornirci raffinati strumenti per orientarci nella complessità del pensiero contemporaneo. Capasso, infatti, ci offre metodologie e approcci in un saggio tripartito dove, inizialmente, introduce il problema della tradizione storica del dire d’arte, per poi affrontare i dispositivi concettuali della critica militane e concludere con una revisione del dibattito interno alla critica.
Tendenze orientative
La parola sarebbe per Capasso l’espressione di un dire che, pertanto, già in Opere d’arte a parole (Meltemi, 2007), l’autore aveva sondato attraverso la voce degli artisti per definire un discorso critico rilevato nel dispiegamento retorico delle intenzioni. In Sadiesfaction (due punti, 2011), poi, questo dispiegamento venne verificato ulteriormente a partire dalla logica del collezionista. Dove Capasso aveva chiamato in causa, oltre al desiderio dell’opera, anche la disponibilità dell’artista a prestarsi a uno scambio simbolico. In quest’ultimo libro, che in un certo senso dei due precedenti è in continuità riassuntiva, il critico romano estende il ragionamento snodandolo tra i temi contemporanei.
Capasso qui cerca le ragioni di quelle scelte di campo che hanno trasformato posizioni militanti in tendenze orientative, per poi cadere in una omologazione pervasiva. Per far ciò usa l’esegesi degli approcci fondativi con cui definisce sia le variazioni che le differenze di declinazioni delle contestazioni risultano spesso funzionali alla definizione di un contesto culturale che si riconosce in riscoperte di potenzialità creative nelle battaglie politiche. Capasso dimostra, così, come una corretta ricostruzione storiografica sia l’unico modo per evitare di cadere in una superficiale partigianeria o, ancora peggio, in un prono gregarismo.
Una campionatura di stili
La prima parte del libro è, pertanto, una storia della critica che ricalca la narrazione arganiana da cui Capasso estrapola non una ramificazione di orientamenti disciplinari, ma una campionatura di stili utile a definire la concezione della parola critica nei vari campi del sapere. Nella seconda parte questa concettualità viene analizzata con gli strumenti tipici di Capasso, quali la disamina della dimensione speculativa e psicoanalitica, in cui è centrale parallelo tra Jacques Lacan del Seminario VIII e il Simposio di Platone.

Questo parallelismo che Capasso usa per spiegare il feticismo nell’opera dell’artista americano Mike Kelley (1954 – 2012) ci introduce al ragionamento sulla ricerca antropologica che la critica interroga sovente per delineare termini e condizioni che esulano dalla linearità della storia, quei termini che sono espressione di un gruppo o di una comunità che conosce e riconosce l’arte attraverso i propri riti e le proprie consuetudini. Kelley operò in tal senso quando si avvicinò al pensiero femminista frequentando Suzanne Lacy, allora docente alla California State University a Fresno. L’autore usa così l’opera dell’artista di Detroit per passare a un’argomentazione che, inevitabilmente, intreccia gli scritti di Carla Lonzi.
Militanza e coerenza
Questo esempio di militanza e di coerenza serve a Capasso per chiarire l’apparato teorico in cui si muove la critica femminista, un apparato concettuale che muta nel post – femminismo grazie a una riscoperta di Jacques Lacan. La particella pronominale “Post”, che anteponiamo per delimitare una fine e un inizio, ha nel suo posizionamento innanzi al termine femminismo, un significato non troppo dissimile da quello che può assumere davanti al termine “moderno” oppure “strutturalismo”. Capasso arriva a questa controversa e, a quanto pare, inevitabile, definizione, per tappe consequenziali. Riferendosi alle note origini del Post – moderno, l’autore ne puntualizza i caratteri opposti al modernismo seguendo la diagnosi di Jean François Lyotard in cui scruta la genesi della scrittura post storica.
Capasso scova in questi caratteri la soggettivazione delle prospettive, che sembra essere l’aspetto determinate una rilettura del panorama artistico contemporaneo in chiave globale. Nel raffinamento di alcune tematiche teoriche, Capasso, però, non si allontana mai dall’aspetto operativo della critica, inteso sia come l’avvio di una deriva esemplificativa tipica delle pratiche curatoriali e comunicazionali, sia come problematica rielaborazione linguistica di un “genere” letterario. Questo modo di raffinare la ricerca lo porta ancora di più nel vivo del dibattito intorno alla crisi della critica cui auspica una “resurrezione”, in piena autonomia, come pratica autoriflessiva ed extra disciplinare. Capasso, in conclusione, indica la via della parola ossia del “Dire d’arte” quale atto generativo.