
Eccentrica, narcisista, trasformista, una performer vivente, stiamo parlando di Leonor Fini (Buenos Aires 1907-Parigi, 1996), dalla personalità dirompente e affascinante, enigmatica e complessa, uguale a nessun’altra artista del suo tempo.
Nata da padre spagnolo e madre triestina, che se la portò a Trieste in seguito a dissidi con il marito, città mitteleuropea, cresciuta nell’ombra della cultura della vicina Vienna decadente e simbolista. Amica di Paul Eluard, Max Ernst, Salvador Dalì, Man Ray, Georges Bataille, Fini ha sempre rifiutato di essere considerata surrealista e con André Breton non correva buon sangue, perché non sopportava il suo autoritarismo. Leonor era una creatura emancipata e volitiva dal portamento superbo, con i capelli e gli occhi nero-blu, orgogliosa e fiera come un felino. Per Mario Praz era una “pittrice gotica”, per André Chastel era una manierista, ma lei era Leonor Fini.
A Palazzo Reale cento opere tra dipinti, disegni, fotografie, libri d’artista, costumi e video raccontano la sua appassionante biografia nella mostra “Io sono Leonor Fini”, curata da Tere Arcq e Carlos Martín, promossa dal Comune di Milano-Cultura, con il patrocinio del Ministero della Cultura e della Camera della Moda e prodotta da Palazzo Reale e MondoMostre. L’esposizione rientra nell’ambito dell’Olimpiade Culturale di Milano Cortina 2026, con il supporto dell’Estate di Leonor Fini, e main partner Unipol, Teatro alla Scala e NABA. Questa retrospettiva dedicata all’artista poliedrica e ribelle, incentrata sul suo visionario universo, è una ballata visionaria tra la vita e la morte, che celebra il suo eclettismo, esoterismo ed esotismo, rivelando il suo poliedrico talento andando oltre le classificazioni di genere.
Il titolo è ispirato a una citazione della stessa Fini: “Sono una pittrice. Quando mi chiedono come faccio, rispondo: ‘Io sono’, un’assertiva frase che non lascia margini di dubbio; è la versione femminile di Salvador Dalì, consapevole del proprio genio, talento e determinazione. Ha scelto di diventare personaggio, la maschera di se stessa, vivendo esperienze intellettuali ed artistiche che intrecciano Italia e Francia; unica per il coraggio di vivere al di sopra delle convinzioni, trasgressiva, anticonvenzionale e sempre teatrale nelle sue apparizioni. Questa esposizione si concentra sulla dimensione biografica, contestualizzando arte e vita, permettendoci di riscoprire e conoscere più approfonditamente la creatività versatile dell’artista ingiustamente trascurata dal panorama artistico, forse a causa della sua camaleontica personalità, e dalle molteplici vite; proprio come i gatti che amava più dei suoi amanti.

Fini è tradizionale nelle tecniche ma innovativa per i contenuti delle sue opere, in particolare nel superamento delle categorie di genere, attraverso la critica a modelli patriarcali consolidati, come famiglia borghese e l’identità femminile e maschile, dall’immaginario visivo strabordante e contemporaneo. Celebrata dal movimento femminista negli anni Settanta, Fini viene raccontata in nove sezioni tematiche, con l’intento di rivelare l’io ipertrofico di una personalità borderline diremmo oggi, con specchi che evidenziano il suo narcisismo e moltiplicano gli effetti visionari delle opere che sembrano emergere dall’oscurità, grazie all’eccellente progetto illuminotecnico di Francesco Murano e Yin Jiaqi, che documentano la versatilità della sua produzione, sempre fedele alla figurazione, spaziando dalla pittura alla moda, dalla letteratura al teatro. In mostra c’è la sezione che raccoglie i suoi bozzetti, figurini e un costume provenienti dall’Archivio Storico del Teatro alla Scala di Milano, città che Fini adorava e dove stringe relazioni con artisti e intellettuali, così come amava Parigi e Trieste, dove era cresciuta e fantasticava a cavalcioni della sfinge di pietra del parco sotto il castello di Miramare, travestita da marinaretto.
Fini è una pittrice autodidatta vorace di immagini, appassionata di Dürer, Bosch, Piero di Cosimo, Goya, affine a Savinio, De Chirico, Dalì, galvanizzata da figure di donne uccello, ermafroditi, sfingi con piume, scheletri con ampi mantelli, streghe, mostri alati, grifoni, conchiglie e inquietanti creature ibride tra donna e animali. Oggi sarebbe una pop star, trasformista, che amava vestirsi con costumi e cappelli eccentrici, parrucche, tacchi alti, abiti e tessuti sontuosi.
Fini si poneva come la sacerdotessa dell’occulto, organizzava feste sontuose in costume, indossava maschere da gatto o leonessa, parrucche adornate di piume, immaginando di varcare lo specchio di Alice per entrare nella soglia dell’inconscio, a braccetto di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, oltre il macabro all’insegna di un esasperato estetismo, precipitando in luoghi occulti intrisi di sogni e incubi da attraversare con la leggerezza di un uccello in volo verso l’eternità.

Nel 1936, Fini cambia registro e dal naturalismo passa a una dimensione “surreale”, tanto da essere inserita nella mostra che il Museum of Modern Art dedica a “Fantastic Art, Dada and Surrealism” a New York, dove conosce Elsa Schiaparelli per la quale ha disegnato l’iconica boccetta di profumo Shocking (1937) a forma di busto, ispirata al corpo di Mae West. Le sue compagne di viaggio nel Novecento, vissuto all’insegna della libertà espressiva, sono Dora Mar, Leonora Carrington, Meret Oppenheim, Gala e Coco Chanel. Margherita Sarfatti le è stata ostile e anche Peggy Guggenheim la detestava, ma non Gio Ponti che le ha commissionato dodici disegni per la rivista Domus. Picasso tentò di sedurla in un taxi a Parigi ma lei lo rifiutò. Fini si presenta come la ‘pastora’ delle sfingi, come vediamo nell’opera Bergère des sphinx (1941), amata da Max Ernst per metà donna e l’altra metà leonessa, circondata da ossa delle loro vittime e fiori recisi, gusci d’uovo, simbolo di metamorfosi e imperiture rinascite, stile Bosch per capirci.
Stupisce con L’Alcove (1941), un dipinto che ritrae una donna che veglia su un uomo nudo dormiente, come a dire “attenzione, qui comando io”, un manifesto matriarcale di prevaricazione del femminile sul maschile, come la Femme assise sur homme nu (1942) che riprende l’iconografia rinascimentale di Venere e di Adone dormiente, in cui anche in questo dipinto la donna sovrasta l’uomo. Seducono i titoli delle sue opere che rimandano all’oscuro, all’arcano, al mistero intriso di esotismo, a rituali antichi e simbolismi propri dell’occultismo.

Passano gli anni ma non la sua fascinazione per il corpo umano, è una vera ossessione. Le sue creature ibride come Sphinix (1950), Divinité chtonienne (1946), in cui spicca un animale ibrido tra gatto e un leone che tiene in mano un uovo, elemento ricorrente nell’arte di Fini. Il macabro, la morte, l’erotismo minaccioso, la sessualità perturbante, la famiglia sono i temi della sua ricerca sull’identità metamorfica, in cui il corpo è l’essenza della bellezza. Fini ha intrecciato vita e arte, pittura e letteratura, scambiando con le personalità del suo tempo progetti, esperienze e passioni. Tra gli altri Jean Cocteau e, a Roma, frequenta Anna Magnani, amica con la quale condivide la passione per i gatti, Alberto Moravia e Elsa Morante che di lei scriverà: “che unisce in sé l’infanzia e la maestà”.

Per Federico Fellini, Fini realizza i costumi per una scena di Otto e mezzo (1963), inoltre, il personaggio di Dolores, previsto nella prima stesura di La dolce vita (1960), era ispirato a lei: una scrittrice matura e intellettualmente stimolante, che Fellini immaginava interpretata dall’attrice Luise Rainer. Intenso fu il rapporto anche con Pier Paolo Pasolini: i due hanno condiviso viaggi a Parigi e visite a musei e gallerie. Anche Luchino Visconti ha affidato a Fini la creazione dei costumi per produzioni teatrali e liriche come La Vestale e Il Trovatore.
Nel ruolo di costumista, Fini ha saputo esprimersi al meglio nell’arte del travestimento, vestizione e svestizione; un gioco delle parti che ha recitato anche in vita. Negli anni Settanta la pittrice rinasce come scrittrice con la pubblicazione de Le Livre de Leonor Fini (1975), e altre produzioni da aggiungere al suo universo. Dal 1944 al 1972 produce lavori per il teatro di prosa, opera lirica, balletto e cinema. Ha lavorato con Giorgio Strehler e si è occupata dei costumi della Vedova Scaltra di Goldoni, rappresentata al Piccolo Teatro di Milano nel 1953.

Oltre alla mostra, il catalogo accurato edito da Moebius contestualizza le opere in mostra e include, per la prima volta, il testo autobiografico tradotto in italiano scritto da Leonor Fini stessa, quasi un confessionale tra lei pittrice e scrittrice, e sono una rivelazione i testi inediti di studiosi di fama internazionale; tra gli altri è un piacere leggere i testi della scrittrice Anna Waltz e dell’artista Eros Renzetti. Il percorso espositivo chiude con una carrellata di ritratti fotografici dell’artista felina e amazzone insieme, immortalata nei suoi molteplici travestimenti, maschere e altre vanità, e l’ossessione per l’autorappresentazione culmina con Autoritratto con il cappello rosso (1968), opera scelta per il manifesto della mostra, che suggella la sua abilità di costruzione della propria immagine, e ci fa riflettere sulla sua abilità di prepararsi alla morte e insieme di costruirsi un sé carismatico per consegnarsi all’eternità.