
Ispirata ai celebri reportage di Walter Benjamin dedicati alle città in cui gli capitava di soggiornare, pubblicati da riviste e giornali negli anni ’20 del secolo scorso, la terza puntata di “Immagini di città” torna a Torino, con un personaggio d’eccezione: Guido Costa. Ecco la nostra lunga, esclusiva, intervista
A me piace fare interviste vere, con uno scambio reale. Non ho domande rigide, preferisco un dialogo vero… Ti va bene un’intervista “vera”?
Va benissimo. Non sopporto le interviste via mail…
Questa idea è nata da Benjamin e il suo libro Immagini di città. Ti chiedo della galleria… La tua è sempre stata qui?
No. Quando sono tornato da Napoli, sarà stato il 1999, per un anno o due ho avuto uno spazio in via San Francesco da Paola, di fianco a dove allora c’era Weber. Era uno spazio microscopico, una vecchia portineria di 30 mq. In realtà non avevo intenzione di aprire una galleria. Volevo lavorare nell’arte contemporanea come si lavora nella musica, più come producer o manager che come gallerista. Per cui non volevo avere uno spazio fisico, mi interessava avere uno spazio mentale e di relazione, per collaborare poi con istituzioni pubbliche, fondazioni, altre gallerie e quant’altro su progetti specifici.

Un po’ lo fai…
Sì, ma il progetto originario era proprio quella roba lì. Lì avevo delle opere, ma non era uno spazio dove facevo inaugurazioni o simili. Questo andò avanti un paio d’anni, feci anche un’edizione di Artissima in questa veste. Fu la prima che feci a mio nome, e fu estremamente proficua, perché avevo delle cose molto serie… Gordon Matta-Clark, Rauschenberg, Nan Goldin… La mia idea di spazio più mentale che fisico oggi è considerata normale, ma allora era considerata una specie di oltraggio al sistema e alle sue necessità. Così pensai di fare una galleria in casa, ma poi non riuscii a portare a termine il progetto e infine venni qua. Questo posto era una vecchia litografia storica in disarmo, con ancora dentro tutto: il torchio, le pietre litografiche, le macchine… negli anni quaranta facevano carte per alimenti, spartiti musicali e carte geografiche. Era una rovina, una specie di deposito. Immediatamente pensai di utilizzarlo così com’era, senza metterci mano in nessuna maniera dal punto di vista della ristrutturazione. Ai tempi faceva tanto figo…
Si diceva newyorkese…
Sì, gli spazi non convenzionali…
C’è uno spirito del luogo allora, perché tu hai ancora questa predilezione per le macchine nelle tue scelte artistiche..
Qui ho dovuto smontare delle macchine, paradossalmente. C’erano dei torchi Gutenberg, delle cose pazzesche che nessuno voleva e che poi ho regalato a dei ragazzi che facevano stampa litografica artigiana. Questa è la storia del mio spazio, dove sono ormai da 23 anni o qualcosa del genere. Bene o male l’ho mantenuto così com’era. Ho solo fatto delle pareti in cartongesso perché i muri letteralmente si sgretolavano. Era sempre sporco, non c’è il riscaldamento… è probabilmente un posto veramente primitivo e scomodo da gestire. Ecco perché cerco di fare le mostre da aprile a ottobre massimo, l’ultima è quella di Artissima. Da novembre in poi qui è una ghiacciaia e così lavoro da casa. Però non ho mai neanche pensato di andarmene, per molti motivi anche banali. Primo perché sono in centro che più centro non si può; poi è uno spazio grande, ho il magazzino… Tutto qui è molto ben organizzato. È un posto accogliente, un po’ fané, che non ha nulla a che vedere con i white cube, che io detesto. Se guardi le gallerie ormai sono tutte uguali, non le sai distinguere l’una dall’altra, perché ha vinto un’estetica ripugnante a mio giudizio, un estetica customizzata sulla base del gusto di chi compera. L’estetica dell’abitare delle classi abbienti è diventata una specie di minimalismo morto e la galleria deve essere come la casa… non ci dev’essere neanche un giornale fuori posto…

Non trovi che non sia così solo per le gallerie, ma che sia un po’ tutto tutto uguale? Tutte le stanze d’albergo, come tutte le case, si somigliano. C’è un’estetica omologata. È spaventoso…
Terribile. Ma questo secondo me è il segnale di una debolezza del mondo dell’arte. Parlo delle gallerie, ma anche del meccanismo che porta un’opera ad entrare in un luogo che non è necessariamente un museo o una grande collezione, ma che può essere una casa privata. Questa sorta di conformismo e massificazione è fondata, secondo me, su una totale insicurezza e una totale ignoranza, perché nessuno si prende le responsabilità o è capace di prendersele, o ha paura di prendersele. Tutto questo genera un conformismo estetico che poi c’è anche nelle gallerie. Guarda sui social le foto delle mostre nelle gallerie, tutte. Non le distingui una dall’altra. Sono veramente come dei corpi senz’anima. Perciò secondo me noi stiamo parlando con le anime morte e siamo in un territorio di anime morte: sia dal punto di vista del gusto, sia dal punto di vista delle proposte o del mercato, come delle collezioni o della critica. È un mondo di anime morte e nessuno se ne rende conto. O chi se ne rende conto non dice nulla e accetta che le cose vadano così.
Come si esce da questo?
Io posso solo parlare per me. Voglio vivere nascostamente. Faccio le mie cose e continuo a farle, anche se tanta gente pensa il contrario perché non sono comunicativo come si dovrebbe essere in questo momento. Ma io seguo il mio gusto personale e il mio desiderio. Perché io sono un dilettante, proprio nel senso etimologico del termine: colui che si diletta. Finché riuscirò a permettermi questo enorme lusso, di fare il dilettante in un territorio che è diventato, come dire, professionalizzato e capitalisticizzato nella maniera più mostruosa, andrò avanti. Quando poi mi butteranno fuori farò il pensionato.
Hai parlato di responsabilità, prima. La responsabilità di essere un dilettante, si può dire? Suona bene?
Sì, può essere.
Siamo finiti subito sul tema dell’abitare. Dato che veniamo dalla stessa scuola filosofica (ci siamo entrambi laureati con Vattimo, anche se in tempi diversi, ndr) avrai notato che sono emersi già alcuni temi importanti. L’abitare poetico, il genio dei luoghi… Ma anche Hölderlin, quando scrive “perché poeti”… Il filosofo dentro di te sopravvive? Come sta? Come si sente?
Ma, in parte sì… perché io continuo a leggere di filosofia, in maniera abbastanza costante. Ho provato di recente a leggere l’etica di Spinoza, ma è diverso da quando hai vent’anni… un libro così non si legge, si studia…

Passiamo al rapporto con il territorio…
Parlando di Torino dal mio punto di vista è ambivalente. A Torino esiste qualcosa che ci invidiano in tutte le altre città italiane. C’è una tradizione, ci sono delle cose interessanti, non effimere, tanti elementi che creano un luogo dove si può lavorare, anche localmente, ma in maniera importante. Non è paragonabile rispetto a Roma, Napoli o Milano, dove tutto sommato, nonostante le apparenze, c’è una fragilità di fondo che deriva proprio dalla struttura della città. Milano è fondata sull’effimero, sul demone della moda, che se Dio vuole a noi è stato risparmiato. Torino ha delle caratteristiche di serietà e profondità che secondo me sono molto importanti. Poi c’è il lato negativo, per cui, probabilmente per una cultura secolare e un modo d’essere, Torino è una città fondamentalmente noiosa, dove le relazioni tra le persone sono difficili, la parte mondana tra virgolette è castigata o sempre ricondotta all’interno di dimensioni formali, dove tutti stanno al loro posto… Le occasioni e le feste torinesi sono di una noia lancinante. Gli altri magari sono più superficiali, hanno meno sistema, ma hanno un gradiente umano un po’ più aperto ed evoluto. Questo ci crea tanti problemi, perché già il mondo dell’arte sta diventando di una noia sconfinata, se anche la situazione relazionale è noiosa è meglio andare ad occuparsi, che so… di food and drinks! (ride)
È il carattere di Torino?
Sai, parlare del carattere di una città è difficile, perché ci sono tanti caratteri in una città. Secondo me ci sono stati dei momenti in cui era diverso, era tutto un po’ meno conservatore e forse più primitivo. Penso agli anni 80 o ai primissimi anni 90. Purtroppo però a Torino non esiste una reale convergenza delle vocazioni creative. Chi fa arte visiva sta nel suo brodo, chi fa musica sta lì, chi fa letteratura lo stesso. Sono tutti mondi separati, che rarissimamente s’incontrano, non si sa perché. A Torino ci siano tante eccellenze da tutti i punti di vista, ma è come se vivessero in orbite parallele e non convergenti. Ci vorrebbe più crossover in una città dalle ambizioni culturali…
Si può creare questo crossover?
Io ho sempre cercato di fare qualcosa in questo senso e all’inizio ci riuscivo. Ma da quando nell’arte c’è questa cappa di conformismo, fatta di quattrini, poteri più o meno importanti fondati sul danaro, tutto questo è scomparso perché non è più funzionale. Meglio mettere insieme venti cravattoni che poi ti comprano le cazzate che hai sulle pareti. che venti scappati di casa che però ti danno degli stimoli e delle storie da portare avanti. La vocazione borghese torinese, di una borghesia gretta, è stato il grande peso di questa città, secondo me.

Com’è il tuo rapporto con gli artisti? Tu li segui molto, li accompagni in un percorso…
Ne ho venti e cerco di conservare sempre il rapporto con loro. Per molti miei colleghi mantenere delle relazioni a lungo termine con degli artisti è controproducente. Lo dimostrano tante gallerie che al variare dei gusti sono subito disposte a mandare via chi aveva lavorato con loro, magari anche portando denaro e attenzione. È un meccanismo cinico di utilizzazione della forza lavoro intellettuale, che porta a dimenticarsi di tutte le persone che hanno lavorato con te. Io ho cercato di mantenere le relazioni con tutti o quasi. Lavorare sempre con gli stessi artisti è complicato, perché siamo in un mondo onnivoro e sempre attaccato alla novità, dove quello che era figo ieri oggi ti ha già annoiato. Si dovrebbero sempre presentare cose nuove, ma questo è impossibile, almeno per quanto mi riguarda.
C’è stato un periodo anni fa, forse per l’atmosfera un po’ diversa, dove c’erano tanti giovani talenti che poi hanno fatto qualcosa, chi più chi meno…
Anche adesso ci sono, secondo me, ma non ci sono più le strutture capaci di sostenerli. A Torino ci sono alcune gallerie giovani di cui io ho molta stima che in realtà fanno quel lavoro lì. Penso ad Almanac, Mucho Mas, Crypta… poi ce ne sono tante altre. Però ti dico in tutto questo sfacelo, l’unica speranza che ho sono gli artisti. Il mondo dell’arte è decadente, ma spezzo una lancia per gli artisti… Perché nel bene o nel male si prendono una responsabilità grande, vogliono andare avanti con quello che fanno e che pensano. Le gallerie ormai si sono tolte dall’universo della responsabilità e sono entrate in quello del conformismo. Sono preda del consociativismo, senza profondità, con ambizioni commerciali travestite da buoni sentimenti…
In quello che fanno gli artisti c’è una margine di libertà che è sempre più raro in tutti i settori…
Certo, perché non è più permesso. La logica imprenditoriale, che si è impadronita anche del mondo dell’arte, ha creato delle cose mostruose…io sono cresciuto con l’obiettivo di fare una galleria American Fine Arts, che non ha nulla a che vedere con quello che accade oggi. Ma ormai è la logica imprenditoriale che dà le carte sui tavoli. Le gallerie spendono più tempo energia e denaro per fare tante fiere più che delle mostre sensate. Hai bisogno di artisti come produttori di merce, e più te ne danno meglio è, siamo sempre ed esclusivamente in situazioni merceologiche. Ma se sei dentro questa storia qui sei morto, perché l’arte è inutile. E più è inutile e più interessante. Se la fai diventare merce, sei un pupazzo della distribuzione di merda.
Ma saranno proprio le gallerie che hanno un atteggiamento più imprenditoriale quelle che vendono di più?
No, perché è tutto fasullo. Quelle sono le gallerie che si indebitano di più, e che prosperano sul debito, un meccanismo ormai insano che è il principio della catastrofe. Se guadagni 10 devi spendere 9,8 per stare in piedi e dimostrare a tutti che sei magnifico… ma così alimenti un mercato fasullo in cui non esiste nemmeno più un profitto, ma tutto è rimesso all’interno di questa caldaia, che prima o poi collasserà su sé stessa, quando si potrà più sostenere questo gioco. Questo spiega perché le opere in certi luoghi costano tanto. Ogni centimetro quadro di parete di queste mega gallerie costa enormemente, e quello che esponi deve costare in relazione a quanto ti costa la struttura. Ma se il problema della struttura è diventato il problema del contenuto, anche no…
Stai toccando dei punti che non sono solo dell’arte… somiglia più a 1984 di Orwell o a Brand new world di Huxley?
A nessuno dei due, sta sempre più somigliando al mondo di Ernst Jünger! (ridiamo) Però, ti dico, questi sono i cancri fondamentali. Che vanno anche di pari passo col fatto che l’arte, da mestiere creativo e divertente, è diventato un mestiere infernale. E per altro non difeso da nessuno, vedi l’ultimo decreto cultura… C’è da diventare cinici e abbandonare le speranze di condividere un’esperienza creativa con una comunità… Mi sento abbastanza solo in questa storia…

Però tu sei inserito in tutti i board più importanti…
Io conosco chiunque, ma, malgrado ciò, da sempre vivo in una specie di situazione laterale, che mi ha permesso di avere una reputazione di outsider. Però è una cosa abbastanza assurda.
Forse una volta gli artisti erano più autonomi rispetto al sistema. Oggi c’è un po’ di appiattimento, sebbene con delle isole di resistenza… Ma questa dicotomia arte/sistema non c’è sempre stata?
Eh, lo so… però mi stupisco che il mondo dell’arte non si accorga di quanto stia diventando grottesco e autoreferenziale, con valori dettati da non si sa bene chi. Questo è l’unico mondo in cui ti puoi comprare una rispettabilità.
Non è sempre stato così?
No, secondo me il discrimine è stato nei primi anni novanta, quando sono arrivati collezionisti tipo Saatchi, gli investitori, che sembravano promettere un mercato florido. Questi si sono impadroniti del territorio e hanno reso servi le gallerie, i critici, gli artisti e tutto il resto. Si sono costruiti un territorio a loro immagine e somiglianza.
Secondo me c’è tutta una cultura fasulla da scardinare, che ha a che fare col marketing e le varie tecniche di vendita, che sta contaminando anche il mondo dell’arte e che non funziona…
Roba terribile. Sulla base della comunicazione sembrano tutti incredibili, poi vai a vedere e sono degli sfigati. Io non ho mai speso un euro in pubblicità in trent’anni. Non si può fare una critica, sono tutti prezzolati e quando non c’è dialogo, quando non c’è critica, non c’è un cazzo nel mondo della cultura.
L’arte vera è sempre stata un’arte di rottura. I giovani artisti non devono essere educati ad asservirsi. La storia è sempre fatta da quelli che se ne vanno…
Sì, ma se non c’è un ideale comune e conta solo il portafoglio nessuno lo farà mai… sono tutti attaccati disperatamente a delle forme di sopravvivenza.
In tutto questo, com’è il tuo rapporto con i collezionisti? Da che parte sta andando il collezionismo oggi?
È difficile rispondere a questa domanda. Io posso solo riferirmi ai miei, che sono sempre stati pochi, per tante ragioni. La più importante è che nella maggioranza dei casi io ho opere impegnative, che per forza di cose distillano i collezionisti disponibili ad acquistarle. Sia per i volumi, che per la complessità, che per il prezzo. Per cui ho sempre avuto come clienti istituzioni, per la gran parte, e grandi collezioni. È chiaro che su artisti estremamente popolari, come Nan Goldin, ho avuto a che fare anche con piccoli collezionisti. Però c’è sempre stato un livello sotto il quale non c’è niente da comprare qui. E in più a me spiace sempre vendere e quindi faccio un po’ il difficile… però tutto quello che ho prodotto l’ho sempre venduto, anche le cose più complicate e apparentemente invendibili. Comunque è raro avere collezionisti che seguano la produzione di un artista passo passo. Ci sono molte collezioni onnivore, dove c’è dentro tutto e non si capisce il principio; e una volta che si sono impossessate di un documento di qualche artista e ce l’hanno in collezione, arrivederci e grazie. È rato trovare quello che va a studiarsi l’artista e lo segue.
Ma non è anche il compito del critico di fare da tramite in questo senso?
Teoricamente sì. La maggior parte dei collezionisti, tolto alcuni, sostiene di comprare con la pancia, s’innamorano di quella cosa sia quel che sia. Poi non è mai vero, perché in realtà comprano con le orecchie… è rara la fidelizzazione dei collezionisti, almeno io non ci sono mai riuscito. Anche perché sono abbastanza sincero, e se un lavoro non mi piace lo dico. Poi io sono cresciuto tra gli anni novanta e duemila, la maggior parte dei miei collezionisti sono anziani.

C’è un cambio generazionale?
Per quanto mi riguarda no. Non ho ancora incontrato il cosiddetto giovane collezionista che sia diventato parte della storia della mia galleria. Poi io utilizzo dei principi molto precisi… Per Kusmirosky o Paul Etienne Lincoln, per esempio, ci vogliono collezioni importanti, in grado di gestire installazioni ambientali. Il salto lo fai con un collezionismo di un certo tipo. Ancora di giovani così non ne ho incontrati. Ho avuto collezionisti che erano miei amici, con cui sono stato in contatto tutta la vita, ma di solito non vado nelle situazioni mondane… Di tutti gli artisti di speculazione non rimarrà nessuno. Fanno troppe opere, sono delle meteore. E le gallerie oggi sono obbligate a lavorare sulle meteore. Per esempio, oggi vanno di moda gli artisti cinesi o africani ma io non me ne occupo. Io mi occupo di arte occidentale e in gran parte di arte italiana.
Che mi dici del rapporto tra arte e filosofia? In che modo su di te ha giocato la formazione filosofica?
Su di me ha giocato il fatto che, avendo studiato filosofia, hai bene o male una formazione culturalmente articolata che fa la differenza. Nel mio mestiere di gallerista non ha influito aver letto Platone e Aristotele, ma in certo modo l’averlo fatto mi ha permesso di avvicinarmi all’esperienza estetica con un ventaglio culturalmente più articolato di quanto normalmente accada, nel bene e nel male. Poi ci sono galleristi trogloditi che hanno una spiccata sensibilità verso il fare artistico… Nel mestiere di gallerista la filosofia può essere utile perché sei autonomo e non devi avvalerti di altri, da tutti i punti di vista, anche per la costruzione di un orizzonte espressivo, critico o culturale. Poi ti limita perché non sei un bastardo, sei eticamente coinvolto. Il gallerista troglodita è più mercante. Non sono stati molti gli artisti con cui ho intavolato delle piattaforme filosofiche, nei progetti che abbiamo costruito, però alcuni sì. In assoluto il più articolato è Peter Friedl.
Dopo tutto quello che abbiamo detto, torniamo a Hölderlin e a quella poesia in cui si chiede: perché poeti in tempo di povertà, o di privazione?
Su quel testo oscuro di Hölderlin una volta ho provato ad articolare un discorso, in un saggio pubblicato altrove. Il dispositivo concettuale che stava alla base era la rilettura del pensiero dialettico privo di conciliazione e mantenuto all’interno della differenza e della diversità, non nel senso delle teorie del genere, ma in senso ontologico.

C’è anche la frase: pieno di merito ma poeticamente abita l’uomo su questa terra…
Questa è bellissima.
È un programma esistenziale
È il nostro compito. Ma poi, sai, ne parlavo con Kusmirovsky. Noi facciamo cose assolutamente inutili, quindi dobbiamo farle assolutamente perfette! Lui è un poeta istintivo. È un brutalista, ma sofisticatissimo, anche se non mastica teoria.
Heidegger diceva che l’arte è la messa in opera della verità. È vero?
Dal punto di vista dell’artista onesto sì, ma non so in generale. A me è sempre piaciuto giocare, amo la dimensione di gioco che c’è nell’arte quando la costruisci e la metti in scena con gli artisti. Mettere insieme le mostre per me è come giocare con gli amichetti in cortile. La dimensione ludica e creativa è la cosa che di più mi ha interessato fin dal principio, insieme alla comunità degli artisti, di cui io ho sempre cercato di fare parte perché mi sono sempre divertito con loro. Soprattutto quando ero più giovane per me era quella la mia comunità, ed era la sola che io conoscevo che mi permetteva di condividere tutto. Non c’era distinzione tra vita quotidiana e mestiere. Era come essere in un grande parco giochi con altri bambini a divertirsi.
Eraclito diceva che il senso dell’essere è un fanciullo che gioca…
Esatto, è questa roba qua! Per questo non mi piace quando tutto è così normato… hanno rovinato il parco giochi, è stato inquinato a tal punto che è diventato noioso. Invece io in quel parco giochi per decenni ho vissuto in maniera straordinaria. Oggi non è più così; perché allora era un parco giochi gratuito, privo di secondi fini se non quello di mettere in scena il nostro gioco.
Vorrei tornassimo a far così…
Sì, se no non succede un cazzo.