
La Fondazione Galleria Milano dedica due giorni al ricordo dell’amico e collega Orio Vergani (1974-2024), a un anno esatto dalla sua scomparsa
Le Vans di Orio toccano appena l’asfalto, consumate da un’andatura danzante tra le crepe della città. Milano non dorme mai, ma lui ha trovato un ritmo, scivola tra i suoi battiti intermittenti, pare un sassofono sopra un ronzio di neon. Porta il cappotto sbottonato, come le pagine di un libro che non vuole chiudersi mai del tutto. Forse è appena uscito dalla sua Nowhere Gallery, o forse sta solo inseguendo un’idea lungo un bordo sottile tra arte e vita.
Orio non era un gallerista, era un rabdomante della bellezza scomoda, un equilibrista tra il possibile ed il proibito, che come il progetto gallerialanotte, ha trasformato le strade di Milano in una tela imprevista. Ha acceso un’insegna che illuminava l’arte nel silenzio della notte, lontano dai vernissage, dagli applausi di circostanza, dalle formule precotte. Non una mostra, ma un’icona, un segnale per gli insonni e i flâneur, per chi ancora crede che l’arte debba essere scoperta per caso, come un graffito su un vagone in corsa.
La scritta illuminata in quella lunetta ribaltata è inequivocabile: NEGOZIO.
Grandi lettere nere che si stagliano sullo sfondo retroilluminato: non c’è spazio per il decorativismo né per le piacevolezze postmoderne. NEGOZIO semplicemente denota. Definisce l’attività commerciale che si svolge nel locale sottostante, senza indicare di quale merce si tratti. Ed è proprio la natura di questa merce a creare un sottile disagio: non si tratta di oggetti comuni, ma di opere d’arte.
Era Giancarlo Norese, “artista scaltro”, come lo definisce Rossella Moratto in un bellissimo testo che accompagnava la mostra. Non a caso un artista che agisce sempre ai margini, spostando il senso con interventi minimi ma radicali. La sua insegna è un corto circuito concettuale, un colpo di tosse in una stanza silenziosa: l’arte è merce? Dove finisce la libertà creativa e inizia il valore di scambio? Ed è così che Orio e Norese riportano al centro il conflitto tra otium e negotium, tra la creazione intellettuale libera e la produzione incasellata nel mercato.
E poi arriva E IL TOPO. Di soppiatto, con la sua logica sfuggente, con il suo apparire e scomparire. Un collettivo senza volto, senza centro, un’infestazione artistica che si propaga come un’idea clandestina. Il topo come simbolo di resistenza, di intelligenza furtiva, di comunità occulta che sopravvive tra gli interstizi del sistema. Se ne stanno lì, pronti a rosicchiare le certezze, a intaccare il patinato edificio dell’arte ufficiale, a sporcare di grigio l’ordine del bianco e nero.
Ecco che appare un fantasma della libertà (cibo dentro), per ricordare il memorabile intervento di Joykix, che squarciò il velo sulla nostra relazione con il cibo: un combustibile, un simulacro, un’ombra di quella convivialità di cui siamo tutti orfani. Scatti di involucri specchianti, anatomia di un sistema che ha ibernato il senso stesso della nutrizione. Così come la Beat Generation rifiutava il consumismo dell’anima, la fotografia di Joykix svela l’inconscio ottico della nostra fame senza volto.

Orio era un collezionista di attimi sfuggiti, di gesti interrotti, di immagini che risalivano dalla periferia dell’attenzione. Il porno alternativo è il nuovo Rock’n’Roll. E se l’arte è una verità che brucia, lui l’ha lasciata incendiare in pochi metri quadri, di pareti e di marciapiede. Lasciando un SIG NUM di gesti, persone, animali, suoni. Per citare il lavoro di Martina Corà, che di quel contenitore infinito ha trascritto i segni.
Vorrei citare tutte le artiste e gli artisti che sono stati partecipi di questo sentire, tuttavia anche questo testo è solo un’istantanea presa in prestito dall’oblio digitale, portata nel cuore di un discorso più grande che è Nowhere: quello sul desiderio, sulla libertà, sulla dissoluzione stessa dell’autorialità. Ferlinghetti scriveva: “Penso a me stesso come a una creatura ancora in cammino, che si fa strada di corsa attraverso questo paesaggio spettrale del ventesimo secolo.”
Orio ha corso nello stesso paesaggio, lasciando orme fatte di pareti nude. Milano lo ha visto camminare. Sulla parete della galleria, in un angolo che sembra sfuggire alla logica del tempo, Alessandro Rolandi ha lasciato una traccia: “This is the way the world ends, not with a bang, but with a whimper.” Non un’epigrafe, ma un sussurro inciso a mano, fragile e definitivo come l’arte stessa.
Questa storia non finisce con un’esplosione, né con un lamento. Finisce e ricomincia – nel gesto di chi, di notte, inciampa ancora in quelle parole e le fa proprie.
Orio Vergani è stato un gallerista sperimentale. Nel 2001 aveva aperto la sua Nowhere Gallery, dapprima spazio espositivo itinerante tra Milano, Parigi e Firenze e successivamente, dal 2003, stabilitasi a Milano, con focus sulla giovane arte italiana e internazionale. L’arte era intesa da Orio come pratica sociale, anche grazie al suo sodalizio con Alessandro Rolandi, interessandosi alla relazione con l’ecologia e spaziando dalla pittura alla performance, dalla fotografie e all’installazione, fino alle recenti ricerche sull’intelligenza artificiale e le sue implicazioni. Ha lavorato come editor per Skira (2003-2006), come critico d’arte contemporanea per Il Giorno/QN e Uomini&Business. Ha insegnato storia dell’arte moderna e contemporanea all’Accademia Raffles ed è stato consulente per diverse startup sul legame tra arte e nuove tecnologie.
Fondazione Galleria Milano
Via Arcivescovo Romilli 7, Milano
venerdì 21 marzo, ore 18.30 – 20.30 | serata per Orio. Ingresso libero
sabato 22 marzo, ore 16.00 – 17.00 | meditazione guidata per Orio. Ingresso libero su prenotazione
Venerdì saranno presenti un poster, una fanzine, tanta musica e gli amici.
Sabato 22 marzo, dalle ore 16.00 alle ore 17.00, si terrà una meditazione trascendentale guidata dal suo insegnante Gianfranco DiMola.
Si raccomanda la puntualità. Vista la natura dell’iniziativa, non saranno ammesse persone e visitatori per tutta la durata della meditazione.