
Molte lune fa Antonio Allegri detto il Correggio si dava da fare per dipinti meravigliosamente coinvolgenti nelle cupole di certe chiese dell’Italia centrale e nelle pale d’altare, con grande amore per la luce e l’illusione. L’Adorazione dei Pastori, ormai per tutti La Notte, diventerà uno dei dipinti più ammirati del mondo, tanto da scomodare pittori come Velázquez, El Greco e Rubens, pronti a deviare sulla strada di Reggio per analizzarlo. Ricco di tinte crepuscolari e di un chiaroscuro senza precedenti, costituì la fama del pittore tanto che il Vasari sosteneva avesse atteso alla maniera moderna così perfettamente che in pochi anni divenne “raro e meraviglioso artefice”. “Stupì poi il cielo” in quella cupola del Duomo di Parma che si ritiene “stupendissima maraviglia e tengasi pur per certo che nessuno meglio di lui toccò i colori”. È sempre il Vasari a scrivere, che però liquida in fretta l’intervento alla cupola di San Giovanni che pare quasi ingiusto, in fin dei conti. L’incarico gli fu affidato nel 1520 e Antonio di lì a poco si cimentò in un ciclo di affreschi che comprendeva scene della vita di Gesù, immagini tetramorfiche, evangelisti, dottori della chiesa e la visione nell’isola di Patmos dove Cristo insieme agli altri apostoli fece la sua apparizione a San Giovanni indicandogli il posto a sedere tra gli altri. Magnifico è poi constatare che non ci sono né le barriere architettoniche né lo spazio limitato che il Rinascimento prevedeva nel definire l’uomo a misura di tutte le cose, e che l’incredibile e audace prospettiva crea uno degli effetti illusionistici più riusciti del Cinquecento e fa apparire Cristo tra le nubi, al centro della cupola, circondato dagli apostoli. E sembra che siano tutti lì ma, se si fa la conta, alla fine qualcuno manca. Chi? Proprio San Giovanni. Riguardando meglio l’immagine però lo si trova, sotto San Bartolomeo e San Mattia, ai bordi del tamburo, mentre fissa il Nazareno che gli indica il suo posto sulla nube. L’episodio è infatti creato per essere visto da due punti diversi: in uno la sua figura appare soltanto a chi occupa il coro della chiesa, quindi ai monaci e ai religiosi officianti; nell’altro i visitatori sono messi in condizioni di scorgere la scena così come dovrebbe vederla San Giovanni, che ai loro occhi non compare, proprio per creare un effetto di scambio. Per qualcuno la posizione di Giovanni sull’astrolabio corrisponderebbe addirittura alla data del 27 dicembre, giorno della sua festa e altro colpo di genio, come se servisse altro. E pensare che Bernard Berenson fraintese e sostenne che il Correggio aggiunse alla pittura una delle peggiori pratiche del tempo: il “costipare in un dato quadro figure quanto più vaste”. E nell’”ispirato”, almeno ammette, San Giovanni Evangelista di Parma “ecco che manca lo spazio per la nobile testa del santo”. Ma tant’è. Arriveranno comunque grandi apprezzamenti anche da Berenson, soprattutto nel campo di luce e colore, dove con grande sicurezza collocherà Correggio più su di Raffaello, non però di Tiziano. Di certo “scavalcò il tempo in cui visse”, come sosterrà poi Federico Zeri, e forse anche qualcuno di quelli successivi. E questo dell’oltrepassare i propri anni potrebbe essere un nuovo criterio per giudicare un artista riuscito, ma quello era il precedente episodio, quindi ora abbasso la testa e proseguo.

Per dove? Verso Panicale, dove Pietro Vannucci detto il Perugino ha dato vita a un’opera apparentemente semplice ma con un particolare pungente. Si tratta del Martirio di San Sebastiano nella chiesa omonima, posta poco lontano dalle mura della città in fondo al borgo Regio che esce dalla porta Perugina e si estende sulla cresta orientale del monte Petravalla, perfetto scenario per la deliziosa vastità amata nella quale il Perugino era solito inserire “effetti mistici ed estatici con atteggiamenti pacati”, come fece notare Roberto Longhi, senza essere mai “goffo”, come gli disse un giorno Michelangelo, lontano dall’avere “un cervello di porfido”, come ebbe a dire invece il Vasari. Il paesaggio rappresentato sullo sfondo dell’affresco, con il lago e le sue dolci colline, è infatti simile a quello che si ammira al di fuori dell’edificio dove fino a pochi mesi prima dell’inizio del lavoro si era diffusa un’epidemia di peste che aveva causato moltissime vittime. I committenti scelsero come soggetto San Sebastiano proprio perché ne era il protettore, dopo un episodio miracoloso avvenuto ad Avignone. Sebastiano in vita fu un soldato romano vissuto al tempo dell’imperatore Diocleziano, convertitosi al cristianesimo e condotto al martirio, scampato alle frecce che gli furono scagliate contro dai suoi commilitoni ma non alla flagellazione che subì poi. La scenografia dell’affresco è quella di una piazza monumentale chiusa sul fondo da un grandioso porticato che si affaccia sul luminoso luogo. Il portico ha cinque arcate su pilastri che hanno per capitello un segmento di trabeazione, a loro volta inquadrate da un ordine maggiore di paraste con candelabri e capitelli rinascimentali, ma di più non serve precisare qui, ai nostri fini. Sebastiano domina al centro sopra un alto plinto, legato a una colonna, mentre intorno gli arcieri manigoldi ai suoi piedi sono disposti: due mancini che scagliano frecce con diverse tecniche di lancio e abbigliamenti, e due che caricano le armi, mentre dall’alto del cielo Dio, sotto una sorta di timpano decorato da bassorilievi, circondato da angeli, cherubini e serafini, si affaccia a benedire il martire, garantendogli la sopravvivenza nel breve termine. L’azione degli arcieri è priva di violenza e pare una danza, la tortura è appena iniziata, due frecce sono state scagliate e hanno trafitto i fianchi del santo poco sotto l’inguine, senza provocare fuoriuscite di sangue. Alle due estremità della piazza qualcosa però non torna e alcune figure poco nitide osservano la scena e vogliono esser presenti: si tratta dei committenti. Ma perché si scorgono così poco? E qui avviene il fatto che rende ai miei occhi speciale questo martirio e giustifica l’approfondimento. Da una visione ravvicinata dell’intonaco dipinto risulta che i profili di tutte le figure principali furono delineati con lo spolvero da cartone ad eccezione dei due gruppi di tre figure che si vedono con fatica sotto le due campate esterne, che vennero abbozzati a pennello quando la pavimentazione e i fondi paesistici erano già stati ultimati e realizzati a secco sull’intonaco asciutto. Purtroppo non si conoscono i termini del contratto stipulato con la comunità locale, che ci aiuterebbe a comprendere meglio alcune scelte del pittore, ma il Vasari nelle Vite si ferma a lungo sull’avarizia del Perugino che gli derivava dall’aver conosciuto la povertà in gioventù, sì che “per denari avrebbe fatto ogni mal contratto”. Se davvero fosse avaro non è confermato ma certo è che i committenti di Panicale furono lenti nei pagamenti e Pietro avanzava undici fiorini ancora diversi anni successivi. Nel 1903 Giustiniano Degli Azzi ritrovò tra le carte del Collegio del Cambio di Perugia la denuncia che il 12 Giugno del 1507 Pietro aveva sporto contro la comunità di Panicale, a saldo dal compenso per un san Sebastiano dipinto su richiesta – pro residuo mercedis picture unius fighure sancti Sebastiani dicte comunitati facte – e che fu ripresentata il primo luglio successivo. Non si sono conservati gli atti del processo che ebbe certamente il suo epilogo in una condanna se di fatto il sindaco e procuratore della comunità al primo di settembre pagò l’ammontare mancante.

Giovanni Battista Cavalcaselle osservò che Pietro, trasferitosi da Firenze, dove il Vasari scrisse che fu criticato da tutti gli artisti per aver riprodotto troppo da altre pitture, “giunto appena in Perugia e trovatosi in necessità di moneta si affrettò a domandare il pagamento dei suoi crediti e dal comune di Panicale ebbe i fiorini concordati”. Il San Sebastiano di Panicale non fu l’unico che dipinse il Perugino, che già una decina di volte si era cimentato con il tema, ma la sua dedizione al soggetto non bastò a preservarlo dalla fine che fece: morir di peste comunque. E così scomparve lui e i committenti dipinti non a fresco, compiendo la vendetta di Pietro verso quei creditori che persero tempo per il pagamento e che nel tempo si persero loro. E se ora i conti tornano, posso scuotere la polvere dai miei calzari e di buona lena proseguire altrove.

E se Lena dico, al Caravaggio penso. Ma quale? Vagare come un pellegrino chiama in causa la Madonna di Loreto. Secondo la tradizione, la Madonna e il Bambino apparvero ai viandanti che avevano intrapreso un lungo cammino fino alla Sacra Casa e, stando a quanto si dice, la ricompensa per i loro sforzi sarebbe stata l’apparizione della Madonna con il bambino in grembo. Nel dipinto del Caravaggio un’insolita Maria con i capelli raccolti si affaccia alla porta in punta di piedi con in braccio il bambino, mentre due pellegrini che sono giunti fin lì, forse madre e figlio, a loro s’inchinano. Maria è diversa dal solito: non ha veli o vesti di lusso, nel viso pare seria e quasi infastidita. I visitatori hanno i noti piedi sporchi e fangosi ben in vista e gonfi per il cammino, e la donna porta una cuffia sdrucita, come indignato fa notare l’infastidito Giovanni Baglione. E in effetti il decoro di certo non s’impone e l’iconografia tradizionale della Madonna, seduta sulla Casa Santa che vola, non viene considerata. I colori sono scuri, Gesù ha gran parte del viso in ombra, la luce è quella di taglio e, tra le vette caravaggesche note, nulla pare ancor più eccezionale. Il dipinto va però letto nel contesto della Controriforma quando, per rispondere alla minaccia protestante che sminuiva la Chiesa ritenendola non necessaria ai fini della salvezza dell’anima, il concilio di Trento attuò un’evidente rarefazione del lusso nei dipinti e una limitazione di quelle licenze formali tipiche delle nuove epoche. Anche la vita quotidiana dovette adattarsi e sebbene fosse confermata la vendita delle indulgenze e altre gravi abitudini, per mantenere una certa decenza si cercò di indebolire la locale prostituzione. Il Caravaggio certo non si sentì parte del capitolo e scelse per le vesti della Madonna tale Antognetti Maddalena, detta Lena. Lena era una prostituta redenta ma non era la prima volta che il pittore la chiamava in posa e una malafemmina nei panni di Maria all’interno della chiesa di Sant’Agostino non sembrava nemmeno tanto strana, poiché la cappella dove il dipinto era previsto apparteneva prima a Fiammetta, cortigiana “spinta” di Cesare Borgia e damigella di singolar bellezza.

Nella Roma del tempo le prostitute erano varie: le cortigiane “da lume o da candela” erano di infima condizione, quelle da “gelosia” attiravano a gran voce i clienti da dietro le imposte e le “domenicali” si attivavano solo nei giorni festivi. Le “cortigiane oneste” come Fiammetta erano invece agiate e con buona cultura, dotte nella discussione e persino capaci all’occorrenza di recitar poesia. Quella cappella aveva dunque già preso familiarità con piccanti vicende che il Caravaggio conosceva e che aggiunsero al dipinto una vena peccaminosa. Se ciò poi non bastasse, anche Imperia, la donna preferita di papa Giulio II, riuscì ad ottenere i funerali nella chiesa di Sant’Agostino, addirittura in presenza del Papa stesso, creando un pregresso e un famoso pettegolezzo. E se il cardinal Borromeo scrisse che “queste cose piacciono alla moltitudine, la quale purtroppo si compiace delle cose peggiori” io qui alzo le mani al cielo come quell’uomo con i pantaloni ocra nel 3 maggio di Francisco Goya e rapidamente mi congedo.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni.