
Quarantuno “ritratti” delicati che restituiscono vivamente buffe stranezze e peculiarità intime, insieme a momenti chiave della ricerca di altrettanti architetti nel volume di Manuel Orazi
Sono quarantuno gli architetti di cui Manuel Orazi, nell’appena uscito Vite stravaganti di architetti (Giometti&Antonello 2025), tratteggia sapientemente e con arguzia dei piccoli ritratti mignon, tanto minimi quanto delicati nel restituirne vivamente buffe stranezze e peculiarità intime, insieme a momenti chiave della loro ricerca, raccogliendo e rimaneggiando articoli pubblicati negli scorsi anni. Questo potrebbe essere già il primo livello di lettura, superficiale ma già soddisfacente, in cui si attraversano queste vite tra un aneddoto e un evento maggiore, apprendendo magari della predilezione di Adolf Loos per la purezza del roast beef, in quanto privo di decorazioni e fronzoli (chissà, fantastichiamo, se Loos fosse stato un cuoco in un universo parallelo, avrebbe scritto forse Condiment and Crime), oppure del bizzarro soprannome atacchica – senza tacchi – affibbiato da Paolo Grassi a Gae Aulenti.
Diverte, poi, immaginare un ulteriore livello di lettura, più ermetico. Di fatti le vite di questi quarantuno architetti sembrano quasi fondare dei nuovi archetipi di architetto, ovvero tipologie che potrebbero ripetersi e reiterarsi d’ora in poi, e perfino costituire strumenti di classificazione, chissà: ogni personalità, è infatti accompagnata da un più o meno bizzarro epiteto che lo contraddistingue in relazione ai suoi modi di vivere o di operare. Abbiamo dunque lo Scanzonato (Raphael Soriano), l’Aristocratica (Stefania Filo Speziale), il Dandy (Charles Jencks), il Freak (Frank O. Gehry), l’Erotomane (Carlo Mollino), il Seminatore (Yona Friedman), l’Ebreo errante (Jean-Louis Cohen) e così via.

Ma il vero merito di questo libricino, -ino solo per misure, è di interrogarsi diffusamente, sommessamente a volte, sul rapporto storia-biografie, mai del tutto risolto, ovvero di quanto le singole storie degli uomini possano o non possano contribuire alla definizione di una più ampia storia. E soprattutto nel caso delle vite degli architetti, in cui la vita della persona e la creazione delle opere appaiono inevitabilmente interconnesse. Biografia e storia sono stati poi due generi spesso opposti in schermaglia, se ne lamentava Marcel Schwob introducendo il suo Vite immaginarie, ma già Plutarco premetteva alle sue Vite parallele che storici e biografi erano due cose differenti, i primi cronisti di «battaglie con migliaia di morti, grandi schieramenti d’eserciti, assedi di città», e i secondi narratori di brevi episodi, una parola, un motto di spirito, che dessero l’idea del carattere del personaggio. Nota a margine, Plutarco, non menzionato direttamente, è omaggiato da Orazi nella vita parallela Cristiano Toraldo di Francia / Adolfo Natalini, andandosi a porre idealmente accanto agli altri numi tutelari di questo volume individuati e dichiarati dall’autore, come Manfredo Tafuri – che invece attraverso il mezzo biografico tentò una storia dell’architettura – o l’anti-filologo Dino Baldi – per il suo dedicarsi paritariamente a personalità sia illustri, sia minori della storia greco-romana, principio, quest’ultimo, che ritroviamo applicato appieno anche in codesto volume.

Dunque, un livello di lettura più profondo riguarda l’essenza più intima della biografia come prassi, e come genere, ed è qui che emergono preziose riflessioni, come l’idea che la biografia sia lo studio di una vita intesa come laboratorio, compiuto solo nel momento della morte; oppure quella mutuata da Ermanno Cavazzoni che esistano tantissime biografie diverse di una persona, a seconda dei fatti cui il biografo voglia dare rilevanza, e al modo in cui voglia connetterli; o, ancora, l’intuizione che «le idee camminano sulle gambe degli uomini, si sa, e la biografia è spesso l’unico modo per dare loro una dimensione quasi tattile, una profondità», come scrive Orazi.
È probabile che questi piccoli e grandi architetti rimarranno come fantasmi nel ricordo del lettore, e che quasi sembrerà di riconoscere qualcosa di familiare imbattendosi per caso in un edificio o in uno scorcio urbano da quelli progettati. Lo scriveva anche Virginia Woolf, del resto, concludendo un suo lungo articolo del 1939, intitolato appunto The Art of Biography: «quando una biografia viene letta e poi messa da parte, qualche scena rimane vivida, qualche figura continua a vivere nel profondo della mente, e ci fa avvertire, leggendo una poesia o un romanzo, un sussulto di riconoscimento, come se ricordassimo qualcosa che avevamo già conosciuto».