
L’arte come riflesso di desideri inconfessabili e verità scomode: tra luce, ombra e provocazione, Il Sole allo Zenit di questa settimana continua il viaggio attraverso il fascino ambiguo delle opere di Sebastiano del Piombo, Romanino e Tiepolo
Continuando il viaggio dello scorso episodio mi sono ritrovato tra i canali di Venezia lungo la calle che collega la Strada Nova con Campo San Bortolomio, fino al sestiere di Cannaregio. Lì, tra due Campielli, rinchiusa tra il Canal Grande e il rio de la Fava, appare la pala di San Giovanni Crisostomo, un dipinto per il quale provo ammirazione e un po’ di affetto pure. Sebastiano del Piombo è l’autore che era tornato a Venezia dopo il Sacco di Roma ed era rientrato poi nell’Urbe prendendo i voti. Prima della svolta religiosa risultava nell’arte una personalità di spicco, divenuto nemico di Raffaello e grande protetto di Michelangelo, anche se la loro amicizia s’interruppe in modo piuttosto brusco per questioni tecniche e di giudizio. E se Luigi Lanzi malamente lo descrisse sostenendo che “può sospettarsi che fosse aiutato nell’invenzione sapendosi che Sebastiano non avea da natura sortita prontezza d’idee e che in composizioni di più figure era lento, irrisoluto, facile a prometter, difficile a cominciare, difficilissimo a compiere” nel caso di San Giovanni Crisostomo compì, e parecchio bene. Anche il Vasari in realtà calcò sui difetti scrivendo alla sua morte che “non fece molta perdita l’arte perché, subito che fu vestito frate, del Piombo si potette egli annoverare fra i perduti”. Ma cosa appare dunque in questa pala di un giovane Sebastiano, prima del 1527 e d’indossar la tonaca? Si tratta un colloquio su temi dottrinali che vede San Giovanni Crisostomo, vescovo e teologo greco antico, intento a leggere un testo che Sebastiano rende aperto con tale finezza intellettuale da far intendere la lingua greca impressa, dando conferma della sua erudizione o quantomeno di eccellenti frequentazioni. Alla sinistra di San Giovanni si vedono tre gruppi di donne: Santa Caterina d’Alessandria, Santa Lucia e la Maria Maddalena che ci guarda intenta e che altra non è se non l’amante del pittore al tempo e che venne scelta come modella per altri dipinti noti eseguiti negli stessi mesi. A destra stanno tre figure maschili: Liberale, San Nicola e San Giovanni Battista. Qualcos’altro: la pala colpisce perché il protagonista non è frontale ma si presenta a noi di lato e in posizione arretrata rispetto ai presenti, con le linee diagonali del pavimento squadrato che a lui giustamente conducono. San Giovanni Crisostomo sta al culmine di alcuni scalini, inaugurando una tendenza che tanto successo avrà nella Venezia di Tiziano e colleghi. Il cromatismo veneziano, la finestra sul paesaggio, l’indice aperto di Maria Maddalena che implica una gestualità assimilabile alle ricerche Leonardesche e Düreriane, oltre ai rimandi ovvi al Bellini e al tonalismo Giorgionesco, così ben eseguiti da confondere inizialmente pure Giorgio Vasari (che a quest’ultimo l’attribuì, salvo poi correggersi) sono aspetti presenti e perfettamente mescolati. E la pala fu infatti notata anche dal raffinato Agostino Chigi, di passaggio a Venezia, che individuò in Sebastiano l’artista adatto ad affrescare la sua villa romana, conducendolo alla Farnesina e inaugurandogli una nuova vita e un ciclo di incredibili opere ispirate alle Metamorfosi Ovidiane. Ma ciò che rende speciale questo dipinto è un piccolo gesto, un’inezia che dà un senso informale di familiarità e dolcezza: la mitra che il vescovo ha appoggiato alle sue spalle, per non avere fastidi sul capo e concentrarsi meglio, come farebbe chi scrive davvero, che mi strappa un sorriso e nell’arte non è poco.

Un sorriso mi viene pure sulla via del ritorno, prendendo una deviazione in A4, con la storia della pirotecnica pala del Tiepolo di Folzano, con Papa Silvestro nell’atto di battezzare l’Imperatore Costantino. Con il dominante bianco sul manto di sua Maestà Imperiale, il blu del paggio, il rosso del santo e il manto arancio dell’angelo sospeso in un volo che quasi pare pirotecnico. E menziono l’opera con piacere anche perché fu inspiegabilmente condannata a un lungo silenzio da parte di tutte le guide locali, come si legge sul sito della parrocchia del paese: “fino alla sua riscoperta e pubblicazione da parte del Molmenti, il quale individuò anche il manoscritto del Facci (1909), era nota solo attraverso l’incisione che ne aveva dato il figlio Giandomenico (in 4 stati). Pubblicando questa incisione nel 1910, il Sack dà la pala fra le opere perdute. Esiste anche, sempre inciso da Giandomenico, il particolare del busto del papa Silvestro con la brocca (in 2 stati). Il Rizzi segnala anche i disegni relativi della Collezione Cramer dell’Aia e del Museo Correr di Venezia. All’atto della sua pubblicazione il Molmenti così si esprime: la tela, brillante per letizia di tinte, è ancora intatta e fresca, come fosse uscita or ora dalle mani dell’artefice”. E pensare che costò una tombola! – ben cento zecchini d’oro – e che fu tal gran festa per le trecentoquarantasette persone del piccolo villaggio che nel settembre 1759 la fecero sfilare in solenne processione lungo la via principale del paese su un carro trainato da sei grandi buoi addomesticati. Per perpetuare il ricordo dell’avvenimento, la strada da cui passò prese il nome di Via della Pala, salvo poi essere storpiata nel 1801 in Via Palla, come fino a oggi sbadatamente è rimasta.

E così divertito ho realizzato che poco sotto Folzano c’è Cremona con il suo prezioso Duomo, non a caso menzionato come la Cappella Sistina del Settentrione e lì mi sono recato. Quale sarebbe il motivo? Perché i Massari della cosiddetta Fabbrica del Duomo, che stabilivano e sovrintendevano ai lavori, scelsero per gli affreschi il meglio che il mercato artistico dell’epoca potesse offrire nei pressi e non solo. Tra i nomi infatti comparvero Boccaccio Boccaccini, Altobello Melone, Gianfranco Bembo e il Pordenone che sostituì Girolamo Romanino. Il Pordenone veniva infatti da un soggiorno romano che l’aveva accresciuto delle novità di Michelangelo e Raffaello e il suo lavoro sarebbe stato di certo più moderno di quelle scene con Cristo davanti a Caifa, La Flagellazione, l’Incoronazione di spine e quell’Ecce Homo che il predecessore aveva appena terminato. Povero Romanino, che non la prese bene. E sebbene avesse Roma nel nome, la sua formazione era veneziana e non alla moda aggiornata. Paragonabile al Tiziano secondo Ottavio Rossi, con lo svantaggio di esser nato in città privata, colorista bizzarro, fiero e capriccioso inventore (Carlo Ridolfi), con lo storico abate Lanzi che gli riconosce grandezza nel fare, energia di espressione, possesso dell’arte esteso a trattare qualsiasi soggetto, discordando dal Burckhardt che lo giudicò velocemente per una composizione antiquata, anche se le sue composizioni antiquate non lo sono per niente. Almeno non in molti casi della sua produttiva carriera, come pare ovvio – si può certo dire – dalla Messa di Sant’Apollonio in Santa Maria in Calchera a Brescia, dove su una grande tela da 306 per 203 centimetri (ogni tanto è bene dar misura) fa comparire due dipinti in uno e, oltre la Messa tra i colori verdi, gialli, azzurri, bianchi e avana squisitamente armonizzati, sta una pala dorata con la Deposizione in seconda fila. Ma ritorno al Duomo della città dei violini dove Romanino non si sfogò negli affreschi cercando di renderci la Passione di Cristo, come scrisse Adolfo Venturi, bensì rappresentò Gesù tra lanzi dai costumi variopinti coi cappelloni piumati e coi saioni a sacco. Ricorre sì, forse, anche al Dürer per comporre la scena, ma non si siega perché Venturi non dovrebbe intenderne l’alto pensamento e sostenere che la rappresentazione è greve, pesante, in un colore rosso e torrido. Sferriamo il contrassalto con una sola immagine: L’Ecce Homo.

Romanino si firma sulle scale con una scena calata in un contesto Rinascimentale che ben s’intuisce dalle vesti, come il soprabito in damasco nero senza maniche, le scarpe a zampa d’orso, camicie bianche ben lavorate, guanti e cappelli che son certo di moda al tempo che dipinge. Sopra le scale, sotto il classico porticato, Pilato mostra il Cristo Flagellato tra una diffusa indifferenza che par proprio sincrona. Le rapide pennellate tracciano una luce chiara che descrive meticolosamente le superfici degli archi, dei colonnati e dei corpi di ogni singola figura e Girolamo racconta la sua verità senza alcuna reticenza, come poi farà per tutta la sua coerente produzione, comprese le smorfie e le più meschine abitudini della gente rozza e popolana, e i muschi e le crepe che qua e là deturpano gli edifici. Il personaggio di sinistra sembra così alla moda e così contemporaneo che potrebbe uscire dal quadro per vivere il tempo che gli appartiene e così lo fa agire davvero il Romanino, rompendo il cornicione che fa da bordo per far posto al suo piede avanzato nel nostro mondo. E giustizia mi sembra fatta già in questo elogio, che poi pochi pittori gli si avvicinano per lo splendore e la magnificenza del colore, la vivacità spiritosa dei concetti e pel sapore individuale, come appunta un Giovanni Morelli provvidenziale.
Così concludo questo breve viaggio, sottolineando che questo “era un bosco narrativo dal quale non avrei mai più voluto uscire. Ma siccome la vita è crudele, per voi come per me, eccomi qui”, citando così la conclusione delle “Sei passeggiate nei boschi narrativi” di Umberto Eco, da cui mi sono ispirato liberamente per quest’ultimo titolo.

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni