
Una scultura di Louise Nevelson pronta a essere battuta all’asta, una telefonata dell’ultimo minuto, un collezionista defunto, e un gallerista “leggendario” che cambia idea dopo trent’anni. Sullo sfondo: milioni di dollari, eredità in bilico e accuse di manipolazione del mercato.
Nel maggio 2022, una monumentale scultura murale di Louise Nevelson stava per essere battuta da Sotheby’s con una stima tra i 500.000 e i 700.000 dollari. Ma a pochi giorni dall’asta, arrivò lo stop inaspettato: Arne Glimcher, fondatore della Pace Gallery e per decenni uomo chiave nella carriera dell’artista, la dichiarò non autentica. Il motivo? Sarebbe stata assemblata dal figlio dell’artista, Mike Nevelson, usando materiali originali, ma senza l’intervento diretto della madre.
Ora, gli eredi del collezionista Hardie Beloff – che aveva acquistato l’opera nel 1996 – hanno portato in tribunale la celebre galleria newyorkese. L’accusa è pesante: sabotaggio intenzionale dell’asta per mantenere il controllo sul mercato di Nevelson.
Il cuore della disputa è una telefonata di Glimcher a Sotheby’s, in cui l’esperto avrebbe affermato: “Sto lavorando al catalogo ragionato e questa scultura non sarà inclusa” Un’affermazione che, secondo la denuncia, ha convinto la casa d’aste a ritirare l’opera. Ma perché cambiare idea dopo trent’anni? Nel 1993, Glimcher stesso aveva attribuito l’opera a Nevelson, seppur con l’etichetta “di qualità mediocre”.
I Beloff sostengono che quella telefonata non sia stata il frutto di nuove scoperte, ma una manovra per escludere la scultura dal mercato e rafforzare l’autorità della Pace Gallery come custode dell’eredità dell’artista.
La scultura, rimasta appesa per oltre due decenni nella casa di Beloff in Pennsylvania, porta con sé una storia intricata. Dopo la morte di Nevelson nel 1988, il figlio Mike e l’assistente personale Diana MacKown si scontrarono legalmente per il controllo delle opere. La vicenda attirò persino figure come Jasper Johns ed Edward Albee. Nel mezzo, l’IRS accusò la fondazione di Mike Nevelson di essere una società fittizia e chiese oltre un milione di dollari in tasse.

È in questo contesto che Glimcher, già nel 1993, emise una perizia sull’inventario dell’artista, classificando alcune opere come “incomplete” e altre come autentiche. Tra queste, anche quella ora al centro della causa. Ma nel 2019, una delle opere “incomplete” fu esposta da Pace come capolavoro, descritta con termini entusiastici e un’analisi formale degna di un cubista.
La causa solleva una domanda centrale per il mondo dell’arte: cosa accade quando chi custodisce l’eredità di un artista è anche il principale venditore delle sue opere? Gli esperti, pur ammettendo che i pareri possano evolvere con nuove informazioni, avvertono: l’incoerenza mina la fiducia del mercato. Intanto, la scultura resta chiusa in un deposito di Filadelfia, in attesa del verdetto. La corte ha già respinto molte delle accuse mosse dai Beloff, ma ha accolto quella chiave: interferenza impropria con l’accordo tra gli eredi e Sotheby’s. Gli eredi chiedono oltre 1 milione di dollari di risarcimento, mentre Pace si difende: “Un’accusa infondata da parte di un collezionista scontento”.
Il caso arriva in un momento delicato per l’eredità di Nevelson, rilanciata da nuove mostre in sedi prestigiose come il Whitney Museum e il Centre Pompidou-Metz. Ma dietro le quinte, il mercato resta fragile, sospeso tra memoria, interessi e potere.
E quando l’autenticità di un’opera può cambiare a seconda di chi la giudica, il confine tra verità e narrazione diventa pericolosamente sottile.