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Intervista a Agustina Fioretti, tra archivi e tassonomie

L’intervista si è svolta in occasione della mostra personale Bayos Negros Dormidos di Agustina Foretti, a Barcellona. La chiacchierata nasce a partire dalla visita alle opere.

Nasci come fotografa, ma intorno a me vedo installazioni con piume, nidi, lance, e poi anche fotografia. Cosa è successo nel mentre? È arrivato un momento in cui, diciamo, la fotografia non era più abbastanza per te?

Direi di sì, a un certo punto sentivo che la fotografia non era più sufficiente per esprimere fino in fondo quello che volevo, ma devo dire che è stato un passaggio a diversi supporti e materiali molto naturale, i progetti stessi mi hanno portata a lavorare con materiali differenti, forse la cosa che mi è costata un po’ di più è stato passare dalle 2 alle 3 dimensioni, ma credo un qualcosa di piuttosto comune, non mi sento sola in questo spaesamento. C’erano anche aspetti del mondo della fotografia che mi avevano un po’ stancata, come il fatto che molto spesso rimanga una categoria separata dalle altre discipline o categorie, o il fatto che la sua natura tenda alla perfezione. Il fatto è che non mi è mai importato particolarmente della perfezione, non mi interessa nemmeno tecnicamente tant’è che mi è capitato di usare macchine fotografiche rotte o dove entrava luce. Una parte di me poi sentiva come se fosse arrivato un momento in cui la fotografia non era più pienamente il mio mondo, o per lo meno non poteva essere soltanto quello.

E come sono arrivati gli altri media?

In modo molto naturale, stavo lavorando su un progetto con cui ho iniziato a sperimentare e i diversi materiali sono come apparsi. Per farti un esempio, i capelli arrivano da un’indagine di archivio a cui stavo lavorando: archivi familiari, video, foto, alcuni più istituzionali, altri orali, e i capelli sono diventati un modo di pensare all’archivio come luogo di memoria, perché se ci pensi bene, i capelli sono mantengono la memoria del corpo e non si deteriorano.

Ora che me lo dici mi rendo conto che è qualcosa che ho sperimentato in prima persona. Ti racconto una sciocchezza: tempo fa mi sono tinta i capelli di fucsia e per poterlo fare dovevo decolorarli completamente. Non ricordavo di aver fatto l’henné anni prima, ma i miei capelli sì, e effettivamente sono usciti effetti.. inaspettati. Non ho mai prestato troppa attenzione ai capelli come archivio del corpo, ma è un aspetto molto interessante.

Questi pezzi che vedi dietro di te sono i primi che ho realizzato con capelli e piume, in quel momento ero negli Stati Uniti, facendo ricerca ho incontrato alcune artigiane ambulanti di gioielli e contemporaneamente ho scoperto una tradizione vittoriana che ha ispirato quel modo, diciamo così, “a nuvola” di lavorare i capelli. Non so se lo sapevi, ma in quel periodo era consuetudine creare come dei quadri di paesaggio fatti con ciocche di capelli che venivano tagliate ai membri della famiglia in fin di vita. All’epoca non solo gli anziani, ma anche i bambini morivano spesso da piccoli e, fondamentalmente, ogni famiglia creava una specie di albero genealogico, una mappa famigliare con i capelli dei morti. L’abitudine di conservare i capelli dei bambini è in realtà molto comune in molte parti del mondo, io sono argentina e mia madre ancora conserva ciocche dei nostri capelli.

Intuisco che da lì hai iniziato a interrogarti e sviluppare il tema dell’archivio e delle varie forme che questo possa avere, anche attraverso elementi naturali come i capelli e le piume.

Furono tanti elementi insieme: in quella fase della ricerca sono emerse molte domande a cui ho cercato di trovare varie risposte. Direi che tutto è iniziato con i capelli come elemento di memoria, partendo per esempio in quel pezzo che vedi in esposizione. Le prime opere si avvicinano di più alla gioielleria e poi il progetto si è sviluppato pensando a questi oggetti, o esseri viventi, o entrambe le cose allo stesso tempo, un qualcosa che non sai bene cosa o chi sono, in una sorta di mix, uno stare insieme tra elementi umani e artificiali, dove la parte animale è quella dei capelli e delle piume, e il l’artificiale sono rappresentati da ganci e lance, per esempio.

Stavo giusto guardando i ganci per la carne al macellaio.

I ganci e le punte, in particolare queste che vedi, rappresentano un elemento piuttosto violento, stavo pensando a come possano coesistere in un solo corpo il soggetto che esercita la violenza e l’oggetto la subisce: punta e corpo, le due cose contemporaneamente. Sulla finestra della vetrina vedrai una rete concettuale con cui ho voluto ragionare su come e quali dicotomie possano coesistere.

Stavo giusto leggendo le parole in vetrina e ce n’è una che mi interessa particolarmente: tassonomia. È una cosa su cui anch’io ho ragionato negli ultimi tempi e mi domando spesso se e quanto senso abbia ancora, anche nel mondo dell’arte, continuare a usare termini e categorie che appartengono al passato. Penso all’outsider art e all’art brut, termini che certamente aveva senso utilizzare quando furono coniati, ma la società da allora è profondamente cambiata, e tanto rispetto a queste tematiche: ha ancora senso considerare l’arte outsider “out”? E se non ha più senso, perché continuiamo a chiamarla così? Capisco il tuo interesse nel riformulare le categorie e le etichette con cui incasellare le cose.

Sì, capisco quello che dici e sono d’accordo. Ti dirò di più, il termine stesso e il concetto di tassonomia su cui riflettevo quando ho iniziato a lavorare su questo progetto è stato immaginare: cosa può nascere da un nido di uccello che è però fatto di criniera di cavallo? Da lì ho iniziato a lavorare su questi oggetti che hanno qualcosa del mondo animale, artificiale e in alcuni anche un po’ vegetale, conscia del fatto che non sarebbero categorizzabili con la tassonomia occidentale tradizionale, e allora ho iniziato a chiedermi: come potrei pensare ad una nuova tassonomia? Dovrei forse rompere con il concetto di tassonomia attuale? Ho forse ho bisogno di un nuovo concetto?

Credo che questa è proprio una delle questioni contemporanee: da un lato abbiamo bisogno di etichette perché se non si definisce qualcosa, questo qualcosa non esiste, ma il fatto di mettere etichette ferree forse non funziona più nei tempi contemporanei, non le vogliamo e non ci rimangono attaccate.

Ecco, forse dobbiamo ripensare a cosa significano queste etichette.

Biografia

Agustina Fioretti è un’artista visiva che vive a Barcellona. Con una formazione in Economia e Fotografia presso l’International Center of Photography di New York, la sua pratica riflette sulla propria migrazione in dialogo con quella delle generazioni precedenti, mettendo in discussione i confini tra umano e non umano, memoria e materialità.
È stata selezionata per il Premio di Scultura della Fondazione Vila Casas (2024) e Art Emergent Sabadell (2023). Ha partecipato a Tandem Books at Chiquita Room e Lluerna Fundació Miró. È stato anche residente presso la Scuola di Arti Visive di New York, Progetto PAC a Gachi Prieto e Manglar Acéfala.

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