
In questa mostra Sarra, presentato dall’amico pittore Michele Tocca, rompe il patto tra figura e pittura ridefinendo i ruoli delle singole componenti portandole, così destrutturate, dentro il quadro
Si è recentemente chiusa la mostra di Alessandro Sarra alla project room della galleria romana Z2o. La mostra è frutto di un dialogo tra due amici pittori, Michele Tocca e lo stesso Sarra. Tocca, infatti, ha presentato l’amico con un testo scritto senza complici indulgenze dove dice chiaramente: “Da pittore astratto senza concessioni al figurativo come ama definirsi, Sarra non si offende nemmeno più se qualcuno osa dire che riconosce qualcosa nei suoi lavori”. Questo vizio apofanico, che spinge il pubblico a percepire figure, è una predisposizione diffusa a trovare soluzioni significative che nella pittura di Sarra non esistono.
Questo pittore, infatti, ci pone innanzi la problematica della ricerca di referenti che spesso forza la complessa lettura di segni e campiture al fine di scovare chissà quale messaggio nascosto. Il pubblico della pittura è stato da troppo tempo abituato ad approcciarsi al fatto pittorico come se si trattasse di un ordine da interpretare dando coerenza e significato a ciò che la pittura svolge solo su una superficie. È, infatti, proprio partendo dal saggio delle qualità superficiali che ci si può addentrare nella struttura profonda del dipinto, cioè, esercitando la scansione puntuale dei diversi modi in cui la pittura si presenta all’occhio quale palinsesto in una soluzione unitaria.

Nello specifico, in questa mostra Sarra rompe il patto tra figura e pittura non solo smontando il dispositivo della rappresentazione, ma anche ridefinendo i ruoli delle singole componenti di questo dispositivo portandole, così destrutturate, dentro il quadro. Se, infatti, si considera pittorico ciò che è parte di una struttura complessa, di cui il colore di copertura è segno della materia o materiale organizzato in un’azione cosciente, ci si può accorgere facilmente dell’esistenza di una disposizione sintagmatica che muove dalla distinzione tra le componenti strutturali della superficie e i modi di copertura della pittura.
Costruzione della visione
Le opere di Sarra, infatti, alternano stesure trasparenti a digressioni lineari, iridescenze a gangli sottili che agiscono nello spazio. La pittura si libera, così, di un sol colpo dalla dittatura del referente, dalla tirannia del modello che viene evitato come se fosse un ingombrante ed obsoleto rimasuglio della riconoscibilità del soggetto. La pittura di Alessandro Sarra diventa perciò soggetto essa stessa e sua essenza resta il procedimento concreto di ciò che si mostra esclusivamente, cioè un processo di esclusione di qualsiasi ipotassi. Di primo acchito si può pensare a questa modalità come a una riedizione del modernismo; niente di più sbagliato, questa soluzione astratta si pone oggi in maniera critica nei confronti del commento al reale, opponendosi alla parodia grottesca della pittura figurativa spesso e volentieri ridotta a occasionale transizione di temi e concetti in una tecnica espressiva.

Ecco, quindi, che la pittura di Sarra riporta al centro il valore autonomo del puro mezzo quale atto di costruzione della visione, luogo dell’immaginazione in cui la fragranza della sensazione non si preoccupa di altro che non sia “sulla” superficie o, meglio, “nella” superficie dipinta. È una rivoluzione astratta che nasce, in parte, dalla necessità di reagire al mondo delle immagini provenienti dagli schermi con cui quotidianamente abbiamo a che fare, volenti o nolenti; sicché, Sarra eludendo il regolamento del dispositivo pittorico, si pone sempre fuori dai confini della riproducibilità, opponendosi all’intercambiabilità del referente e liberando l’immagine da ogni rimando.
Un evento sconnesso
Parrebbe perciò ovvio citare Bob Nikas quando definisce astratta: “Un’immagine di qualcosa che non è esistita al mondo prima del giorno della sua pittura”, anche se ci aiuta, di fatto, a inquadrare la pittura di Sarra in un percorso critico. Per far ciò, dovremmo cominciare proprio dal rapporto dialettico tra l’arte e l’informazione dove ogni immagine è indice di qualcosa che ci spinge al riscontro nella figura di contenuti imposti dal mondo. Sarra, dunque, forza il recinto interpretativo con un’opera che rende plausibile lo sconfinamento verso un altrove e non, viceversa, chiudendo l’altrove in una sua rappresentazione. L’opera, considerata come evento sconnesso a un discorso che la precede o continua a presiedere la sua ragion d’essere, esiste nella permanenza esclusiva dell’atto del fare e s’apre all’esperienza altrettanto esclusiva dell’arte che, in tal modo, non si occupa di null’altro se non del proprio regolamento.

In altre parole, ogni fattore di incidenza sulla realtà dovrà partire proprio dall’opera stessa e in essa esaurirsi. Ciò significa che, in autonomia dal mondo, l’arte di Sarra forma a sua volta un suo mondo. Non siamo però difronte a un discorso banalmente auto – referenziale, questa particolare astrazione così vaga, trasparente e tremula, non è un sospiro solitario e tanto meno un urlo, al contrario, è una sollecitazione a non cadere nel gorgo di una referenzialità confortante e nella trappola della “finzione” pittorica. Ed è, per concludere, proprio il processo iconico, che parte dall’idea di rendere plausibili e immediatamente comunicabili i termini ipostatici, a essere abilmente evitato nella pittura di Alessandro Sarra.