
Palmares vario al Cannes Film Festival, ma due premi, di cui il più importante, finiscono sempre agli stessi
Il Cinema è un’arte che sta scomparendo. Noi studiosi, critici, teorici, professionisti, semplici appassionati continuiamo la routine dei festival, delle interviste (quando siamo fortunati da convincere gli uffici stampa) consapevoli ogni volta, di anno in anno, che potrebbe essere l’ultima. Perché il prezzo delle trasferte sale e si duplica (a breve un focus sui prezzi stratosferici raggiunti a Venezia durante il Festival), mentre gli onorari si dimezzano o addirittura sono nulli, perchè i cinema si svuotano e la leggenda che il pubblico si sta spostando dai cinema al salotto di casa è ancora tutta da verificare in termini percentuali.
Questa edizione di Cannes appena chiusa ha lasciato tutti un po’ insoddisfatti. I film veramente interessanti sono sempre più rari, ai festival siamo sempre meno, le interviste concesse continuano a diminuire, ma sono anche meno richieste dai giornali (forse non fanno numeri?). E considerato che il prezzo medio di un articolo pagato ad un professionista si aggira attorno ai 70 euro con variazioni sensibili più verso il basso che verso l’alto è chiaro che anche per molti giornalisti, con tutta la passione del mondo, la situazione sta diventando insostenibile. A questo si aggiungono le politiche consumate dei festival con sermoni d’apertura politically correct sintonizzati sul canale della retorica, mentre poi di fatto il potere continua a concentrarsi nelle mani di pochi gruppi o famiglie, seguendo spesso linee genealogiche che poco spazio lasciano a nuovi talenti. Basta fare un’indagine sul background familiare di tanti dei registi lanciati negli ultimi anni. Mentre a pochi metri dallo sfarzo del festival, i senza fissa dimora stazionano per la città, infestata di topi. E poi: ma chi ci crede a Juliette Binoche, vestita di bianco tra ricchi e potenti, che legge la poesia di Natale sulle guerre del mondo davanti a un gobbo? È uno show scollegato dalla realtà.

Per quanto riguarda il Palmares, lo scorso anno Paolo Mereghetti aveva commentato la vittoria dello pseudo-indipendente Anora con un’invettiva amara: “Una Palma d’Oro segno della perdita di significato dei festival”. E forse non aveva tutti i torti. È probabile che l’attuale presidente del Festival di Cannes, Iris Knobloch – ex capo di Warner Media Francia e Germania, succeduta al leggendario Gilles Jacob – abbia ripensato le politiche del festival in chiave più commerciale e filo-americana, seguendo la scia del successo veneziano e delle strategie vincenti messe in atto da Alberto Barbera, promosso dalla posizione favorevole nel calendario, all’apertura della stagione dei premi cinematografici.
Cannes, premi e paradossi: inclusione solo per alcuni
A un anno dall’ultima edizione, il Festival di Cannes sembra aver ritrovato invece la sua vocazione più apertamente politica e sociale, premiando il dissidente iraniano Jafar Panahi con una (discutibile) Palma d’Oro e incoronando ancora una volta i veterani fratelli Dardenne. Il problema non è tanto la loro militanza o coerenza autoriale, quanto l’automatismo con cui certi nomi sembrano attirare premi, come se ci fosse un credito morale da onorare a ogni nuova opera – a prescindere dalla sua reale qualità artistica.
Nel mondo siamo otto miliardi, ma spesso il cinema sembra un circuito chiuso. I Dardenne (71 e 74 anni) vincono la loro terza Palma, dopo due d’oro. Panahi, da parte sua, ha collezionato un Leone d’Oro nel 2000, Un Certain Regard a Cannes nel 2003, un Orso d’Oro nel 2015 e altri riconoscimenti. Allora la domanda è se sia davvero sempre merito dei film, o esista una forma di rendita critica.
Eppure ciò che più colpisce è il cortocircuito tra il contenuto dei film e le strutture che li celebrano. Prendiamo proprio i Dardenne, che nel loro ultimo lavoro si concentrano su un gruppo di madri single. È un tema forte, meritevole di attenzione. Ma come conciliare la retorica dell’inclusione con l’ipocrisia di un festival che, nel 2025, ancora non offre servizi di kindergarten o babysitting per le madri giornaliste e lavoratrici?
Parlo per esperienza personale: lo scorso anno sono venuta al Festival con mio figlio e una babysitter. Quando lei è partita un giorno prima per motivi familiari, mi sono trovata sola. Nonostante mio figlio, otto anni, sia un cinefilo appassionato e frequentatore abituale di sale, non c’è stato modo di ottenere un biglietto per la cerimonia. Nessuno spazio, nessun permesso, nessuna eccezione. Il Festival – come molti altri eventi culturali nel mondo – si mostra apparentemente sensibile a certe cause, ma ignora sistematicamente le necessità pratiche delle donne lavoratrici, specie se madri.
Non c’è da stupirsi, forse, se molte professioniste della mia generazione (e ancor più di quella successiva) hanno scelto di non avere figli. Non per mancanza di desiderio, ma per mancanza di strutture e visione. Perché nei festival non esiste ancora uno spazio per bambini? Perché l’inclusione, parola tanto abusata, riguarda sempre e solo certe categorie “comode” da rappresentare e premiare?
Infine, c’è una questione ancora più urgente: l’educazione culturale delle nuove generazioni. Se non si investe seriamente in spazi di formazione, se non si coinvolgono bambini e ragazzi nei luoghi dove si produce e celebra l’immaginario, come possiamo sperare di salvarli dalla dipendenza da contenuti da tredici secondi, dallo scrolling infinito, dalla cultura usa-e-getta? Dalla fine della cultura “at-large” del cinema.
Il cinema ha ancora un potere enorme. Ma i festival devono interrogarsi non solo su chi premiano, ma su chi escludono ogni giorno, silenziosamente.
Poco ricambio generazionale
I grandi nomi invecchiano e il naturale ricambio generazionale fatica ad affermarsi. Dopo Robert De Niro (81 anni), premiato alla carriera in questa edizione, e Leonardo DiCaprio (50), intervenuto per consegnare il premio, quanti sono oggi i talenti in grado di raccoglierne davvero l’eredità? Le straordinarie Nicole Kidman, Angelina Jolie, Cate Blanchett, Kate Winslet appartengono a una generazione che sta invecchiando, ma le nuove icone capaci di catalizzare l’immaginario collettivo si contano sulle dita di una mano. Zendaya? Jennifer Lawrence? E tra gli uomini? Timothée Chalamet? Josh O’Connor? Dove e quante sono le nuove star capaci di affascinare con glamour, carisma e potenza scenica?
La fama fai-da-te promossa dai social network ha trasformato profondamente la percezione di celebrità e desiderabilità. Se vogliamo che il cinema sopravviva a questa crisi strutturale, serve un cambiamento di visione. Continuare a chiedere fondi pubblici per film che non trovano pubblico non è più sostenibile: spesso i finanziamenti finiscono nelle mani dei soliti ignoti, mancano ritorni economici e la qualità artistica è discutibile.
Nel frattempo, mercati come quello indiano dispongono di un bacino d’utenza stratosferico in termini numerici e di una capacità produttiva e distributiva che corre a ritmi elevatissimi. Oppure quello nigeriano. Davanti a un simile scenario globale, se vogliamo restare competitivi dobbiamo ripensare radicalmente l’intero sistema: dalla formazione al finanziamento, dalla distribuzione alla promozione. Il cinema europeo, e quello italiano in particolare, deve smettere di rincorrere vecchie formule e cominciare a investire davvero sul futuro.

Il Palmares nel dettaglio
La giuria del 78° Festival di Cannes, presieduta da Juliette Binoche e composta da Halle Berry, Payal Kapadia, Alba Rohrwacher, Leïla Slimani, Dieudo Hamadi, Hong Sangsoo, Carlos Reygadas e Jeremy Strong ha decretato il seguente Palmares.
Palma d’Oro: Un Simple Accident di Jafar Panahi
Grand Prix: Affeksjonsverdi (Sentimental Value) di Joachim Trier
Premio della Giuria (ex aequo): Sirât di Oliver Laxe e Sound of Falling di Mascha Schilinski
Miglior Regia: Kleber Mendonça Filho per O Agente Secreto (The Secret Agent)
Miglior Sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne per Jeunes Mères
Miglior Interpretazione Femminile: Nadia Melliti per La Petite Dernière di Hafsia Herzi
Miglior Interpretazione Maschile: Wagner Moura per O Agente Secreto (The Secret Agent) di Kleber Mendonça Filho
Premio Speciale della Giuria: Kuang Ye Shi Dai (Resurrection) di Bi Gan
Sirat di Olivier Laxe
È un film che ha immediatamente catturato l’attenzione degli addetti ai lavori e di cui si parlerà a lungo, soprattutto in vista della stagione dei premi.
Si tratta di un road movie che prende il via durante un rave nel deserto marocchino e si trasforma progressivamente in un’allegoria della vita stessa, scandita da colpi di scena continui e da una tensione in costante ascesa. L’uso immersivo del suono trascina lo spettatore in uno stato di trance, mentre l’estetica visiva richiama da un lato la frenesia apocalittica della saga Mad Max di George Miller, dall’altro le visioni allucinatorie e sospese di Zabriskie Point di Antonioni. Imperdibile ma inadatto ai deboli di stomaco.
Resurrection di Bi Gan
Ha forse i 25 minuti iniziali più potenti e ipnotici dell’intero festival. Un saggio di cinema in forma libera, Resurrection è al tempo stesso riflessione metacinematografica e ritratto speculare dello stato attuale della settima arte: la sua decadenza, il suo senso di smarrimento, ma anche la sua ostinata immortalità di fronte alla caducità dell’essere umano – incluso chi il cinema l’ha inventato.
Bi Gan osa, rischia, si concede digressioni criptiche e momenti di pura astrazione, ma l’opera nel suo complesso rimane affascinante, coraggiosa e profondamente originale. È una di quelle visioni che spiazzano, lasciano interdetti, e proprio per questo chiedono di essere riviste, rielaborate, assimilate nel tempo.
Un film altamente cinefilo, certo, ma anche una sensazione dell’anno: imperfetto, ma necessario.

Sentimental Value di Joachim Trier
Sentimental Value è un’opera di grande intensità emotiva che si immerge nelle pieghe intime di una famiglia, raccontando attraverso il tempo e le generazioni la complessità dei legami affettivi e delle memorie condivise. La narrazione prende avvio con un incipit magnetico, ambientato in una casa che diviene spazio simbolico e scenografico, un microcosmo in cui si intrecciano dolori, desideri e segreti nascosti. Il film all’inizio ricorda il cortometraggio vincitore dell’Oscar Tango di Sbiĝnew Rybczynski, trasformando la dimensione privata in un racconto universale sul passaggio del tempo e sull’eredità emotiva.
Il titolo si impone come un’opera di rara finezza e spessore, capace di coniugare la forza drammatica con una sensibilità sottile e misurata. Esplora con rigore psicologico le dinamiche familiari, mostrando come l’intimità personale si rifletta e si carichi di significati collettivi. La casa, evocata come luogo della memoria e della continuità generazionale, diventa il fulcro narrativo attorno al quale ruotano tensioni sottili e rivelazioni dolorose, che disvelano l’essenza stessa delle relazioni umane. La regia sceglie di indugiare sulle sfumature, privilegiando la densità emotiva e la complessità dei personaggi a discapito di una trama convenzionale, offrendo così uno sguardo penetrante e struggente sulle vulnerabilità e sulle risorse del sentimento umano. Un film che si conferma come un esempio elevato di cinema d’autore, destinato a lasciare un’impronta profonda negli spettatori e a suscitare riflessioni durature sul valore della memoria e della condivisione affettiva. Ne sentiremo parlare.
The Secret Agent di Kleber Mendonça Filho
The Secret Agent è un thriller psicologico. Ambientato nel 1977, durante la dittatura militare brasiliana, O Agente Secreto segue Marcello, un professore universitario che torna nel nordest del Brasile con il figlio per cercare informazioni sulla madre, mentre è braccato da due killer per aver ostacolato un imprenditore corrotto. Kleber Mendonça Filho racconta la tensione e la violenza di quegli anni attraverso una storia di resistenza personale e politica.
Il film unisce un impianto narrativo in capitoli a un richiamo diretto alla memoria storica, con un’interessante cornice contemporanea che però appesantisce il ritmo verso la conclusione. La regia mescola atmosfere di cinema politico anni ’70 con momenti visivi intensi e crudi, sostenuta da una convincente prova di Wagner Moura. Un’opera che coniuga impegno e tensione emotiva, ma che rischia di risultare meno accessibile a un pubblico non brasiliano.
Sound of Falling di Mascha Schilinski
Sound of Falling racconta tre storie di giovani donne in epoche diverse, tutte ambientate nella stessa fattoria. Attraverso le vite di una bambina, una ventenne e una preadolescente, il film esplora il ruolo limitato delle donne in una società patriarcale fatta di violenza e repressione.
La regista Mascha Schilinski dimostra grande abilità tecnica e un uso sapiente del sonoro, ma il film soffre di un’eccessiva ambizione formale che compromette la chiarezza narrativa. Il tema femminile è importante e attuale, ma spesso è sacrificato a un’estetica a tratti manierata e ridondante. Un maggior rigore avrebbe rafforzato l’impatto complessivo.

Due grandi esclusi americani
Wes Anderson con il suo manieristico The Phoenician Scheme non ha convinto. Molti critici lo considerano vittima del proprio meccanismo narrativo, che finisce per soffocare il racconto. Tuttavia, in questo film Anderson affronta per la prima volta il tema della morte, portando la sua recitazione – già stilizzata – verso un’astrazione ancor più accentuata, mentre la composizione estetica si fa ancora più ricercata e barocca. La celebre tesi di Marshall McLuhan, secondo cui “il contenuto è il messaggio”, si adatta perfettamente a Anderson: la sua forma maniacale non è solo uno stile, ma diventa parte integrante del contenuto stesso, un contenuto ossessivamente controllato e perfezionista che evolve costantemente per trasformarsi in qualcosa di nuovo.
A differenza del primo, Nouvelle Vague di Richard Linklater è stato accolto con entusiasmo da pubblico e critica americana, che si attende un suo rilancio nella stagione dei premi, dopo la disfatta di Cannes. Girato in un brillante bianco e nero, ripercorre pedissequamente la genesi del leggendario À bout de souffle, così come è tramandata nelle scuole di cinema di tutto il mondo. Tuttavia, l’opera risulta eccessivamente didattica e accademica; un dettaglio che avrebbe probabilmente irritato lo stesso Godard, pronto a smontarla senza pietà.

Chicche della premiazione
Durante la cerimonia di chiusura del Festival di Cannes 2025 non sono mancati momenti memorabili, tra imprevisti tecnici, intermezzi musicali e riflessioni sul futuro del cinema. Solo poche ore prima, un blackout aveva paralizzato l’intera città, colpendo hotel, sale stampa e persino alcune proiezioni, seminando il panico tra addetti ai lavori e ospiti. In questo contesto surreale, la serata finale ha provato a restituire un senso di ordine e celebrazione, tra ironia e consapevolezza, con qualche nota di leggerezza e qualche spunto più profondo.
John C. Reilly, presidente della giuria di Un Certain Regard, ha alleggerito l’atmosfera con uno dei momenti più inattesi della serata: si è presentato sul palco con un uomo che imbracciava una chitarra e ha intonato una versione in inglese di “La Vie en Rose”, regalando al pubblico un’interpretazione ironica e dolce al tempo stesso. Subito dopo, ha scherzato sul blackout: “Cannes è rimasta senza elettricità per un’intera giornata, ma fortunatamente i film in concorso avevano abbastanza energia da bastare per tutti”.
Cate Blanchett, invece, intervenuta per consegnare la Palma d’Oro a Jafar Panahi ha scelto un tono sobrio ma appassionato per il suo intervento, in cui ha denunciato il sovraccarico visivo della nostra epoca. “Siamo bombardati da immagini continue, frammenti di realtà e finzione che scivolano via in pochi secondi. Il cinema, quello vero, ci obbliga a restare, a sentire, a pensare. È tempo di rieducare lo sguardo, di ritrovare il valore dell’attesa, della complessità, della profondità”. Speriamo.