
Così come pare che le onde beta provochino uno stato di attivazione e allerta del cervello, allo stesso modo ho avuto subito la sensazione di essere davanti a un’idea giusta appena ho letto il titolo di questa mostra: “This artwork did not sell”, alla Maxwell Graham Gallery di Chinatown, sulla Essex Street di New York.
Pochi mesi fa la galleria ha inaugurato infatti una mostra collettiva composta da opere d’arte che non erano state vendute nelle precedenti mostre dei vari artisti esposti, installandole esattamente dove al tempo erano state posizionate nel medesimo luogo di esposizione. Il risultato, forse un po’ poco armonioso da un punto di vista allestitivo (ma s’è visto ben di peggio, a mio avviso), è stato molto apprezzato dalla folla numerosa che si è radunata all’inaugurazione e, secondo i galleristi, non si erano mai verificate così tante domande e richieste di price-list, che lasciavano presagire svariate promettenti vendite. Le buone idee dunque funzionano bene e, come diceva Seth* “ideas are faster than tedious objects”.
Veloce è stata anche l’ascesa di una galleria londinese, Ginny on Frederick, che ha avuto un successo a dir poco entusiasmante e meritato, a partire dall’idea vincente della location: la si trova in una paninoteca riconvertita a Clerkenwell, con vista sullo Smithfield Market, nel quartiere londinese di Farringdon. L’insegna recita ancora “Sunset Sandwich Bar II: cibo caldo e freddo da asporto”, ma attraverso la vetrina del minuscolo spazio piastrellato di bianco, aperto senza acqua corrente né scrivania da Freddie Powell nel 2021, in piena pandemia, basta poco per capire che si tratta di una proposta promettente e alternativa. Proprio lì Freddie, finanziato inizialmente dalla madre Jinny, espone quasi esclusivamente amici o amici di amici, con opere piuttosto lontane dal mio gusto ma con una buona dose di coraggio e un generale divertimento che contagia anche il sottoscritto.

Su per giù nello stesso periodo un’altra idea geniale l’ha avuta Jonathan Monk, ispirandosi a un’artista americana che per me è incredibilmente brava. La mostra citata in questione era quella di Louise Lawler che, dalla fine degli anni ’70, ha compiuto complesse indagini fotografiche di forme artistiche spesso trascurate in musei, collezioni, case d’asta o depositi, analizzando le condizioni di esposizione e la “vita” delle opere d’arte fotografate, cercando di dimostrare come cambi il loro significato e la loro percezione a seconda degli ambienti e delle scelte di presentazione. Per una serie particolarmente riuscita, Lawler si era concentrata sulle sculture di Donald Judd e su come apparivano nell’imperdibile mostra inaugurata tra il 2020 e il 2021 al sesto piano del Museum of Modern Art, in una delle più grandi retrospettive mai realizzate. Le fotografie della Lawler erano state scattate di notte, al buio e senza luce artificiale, aprendo a un nuovo livello di interpretazione.

Quella era la prima volta in cui l’artista aveva mostrato la forma di opere all’oscuro, quando cioè la loro ricezione non è solo istituzionalmente proibita per gli orari di accesso al museo, ma anche limitata e preclusa dalle condizioni fisiche della natura. L’opera iconica di Judd era infatti riproposta in un’estetica dell’ombra che infondeva un’incredibile calma, in un’atmosfera meditativa e insolitamente poetica. I lavori derivanti furono esibiti alla galleria Metro Pictures di New York con il titolo “Lights off, after hours, in the dark” dal 17 settembre 2021 e per due mesi circa.
Durante la mostra, Jonathan Monk ebbe l’idea di continuare la ricerca e, ottenuto l’accesso alla galleria nell’orario notturno, rifotografò la mostra di Louise Lawler al buio, sfruttando lunghe esposizioni e la luce ambientale proveniente da segnali di uscita, lucernari e corridoi, riciclando cornici e passepartout esistenti in modo da controllare la dimensione e il formato di ogni singola immagine. “LIGHTS OFF, AFTER HOURS, IN THE DARK Lights off, after hours, in the dark”, con il doppio titolo a caratteri diversi voluto per enfatizzare il plagio, fu così esposta a Parigi nel maggio successivo. E chissà se qualcun altro allora ha fotografato la mostra di Monk senza luce per proseguire la stravagante serie.

Ma se chiamiamo in causa le idee degli artisti, la faccenda diventa prolissa e davvero si complica. Pensate che Francis Picabia decise di diventare pittore dopo che copiò i quadri esposti in casa di suo padre. Nessuno se ne accorse e quando sostituì gli originali e li vendette tenendosi l’incasso, capì che la sua vocazione era vera e si mise a creare di sana pianta, continuando a cambiare il corso della sua produzione nelle varie fasi della vita, passando dalla pittura di paesaggio al cubismo, dall’astrattismo al dadaismo, dal surrealismo a molto altro, perché “per avere idee pulite bisogna cambiarle in continuazione, come le camicie”, lui stesso scrisse nel 1922.

Solo nella primavera di sei anni più tardi Miró creò invece una versione del “Ritratto di ballerina” considerata da Jacques Dupin, specialista dell’opera dell’artista, “un’apoteosi d’insuperabile umorismo, concisione e grazia”. Appartenente a una serie di quattro danzatrici, la versione più spoglia fu acquistata da André Breton addirittura. Joan Miró al tempo cercava alternative ai modi del creare tradizionali, orientandosi verso collage e assemblaggi di materiali volutamente prosaici e austeri, volendo rompere con il buon gusto e le convenzioni. Proprio Breton qualche mese prima l’aveva rimproverato di “abbandonarsi, per dipingere, e solo per dipingere, al puro automatismo”, così Miró decise di rinunciare alla pittura e sostituì la “danseuse” con uno spillo e una piuma. Ma questa non è solo un’ottima idea, questa è poesia pura.
N.d.A. sì, Siegelaub ancora
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni.