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Il Novecento etrusco alla Fondazione Luigi Rovati di Milano

Etruschi del Novecento, exhibition view, (centro e destra, Roberto Sebastiàn Matta Il sorriso verticale della Gioconda, 1978_ sin, Testa votiva di terracotta, II sec. a.C), Fondazione Luigi Rovati, Milano, ph.
Etruschi del Novecento, exhibition view, (Leoncillo Leonardi, Amanti antichi, 1965), Fondazione Luigi Rovati, Milano, ph. Portanome per Fondazione Luigi Rovati

Fino al 3 agosto 2025, la Fondazione Luigi Rovati di Milano ospita la mostra Etruschi del Novecento. Il progetto, realizzato in collaborazione con il Mart di Rovereto, indaga le traiettorie anticlassiche dell’arte etrusca e le influenze dirette che questa ha avuto sull’opera dei maestri di epoca moderna e contemporanea. 

Nulla vi è di più attuale nell’arte odierna come il battibecco tra progresso e conservazione, come se l’uno debba essere in opposizione all’altra. La realtà museale che contraddistingue la Fondazione Luigi Rovati di Milano sembra, tuttavia, accennare a una sorta di controtendenza, tanto da introdurre l’antico per inversione. Ora ritrovato nelle fasi di una contemporaneità che, in qualche modo, lo richiama. Non è dunque una novità ribadire qui l’attenzione per la civiltà etrusca, per le sue politiche e i suoi risvolti sociali ed economici che la Fondazione di Corso Venezia 52 ha assunto come imprinting di ricerca sin dai suoi albori.

Lo avevamo visto in tempi recenti con l’esposizione Vulci. Produrre per gli uomini. Produrre per gli dèi (20 marzo-04 agosto, 2024), per mezzo della quale è stato possibile intercettare elementi di un’epoca certamente passata, ma che avevano inflitto nella curiosità (sicuramente dello scrivente) la fonte di una possibile chiave con cui poter guardare evoluzioni e avanguardie della metodologia artistica novecentesca. Ovviando la dignità della ripresa canonica implicita ed esplicita, la mostra Etruschi del Novecento, giunta a Milano come seconda tappa del suo percorso dopo essere stata al Mart di Rovereto (07 dicembre 2024-16 marzo 2025), “tradisce” una volta ancora la convinzione della dimenticanza come atto necessario per un cambiamento.

Etruschi del Novecento, exhibition view, (Cista, IV-III sec. a.C._ G. Ponti, L. Andreotti, Cista “La passeggiata archeologica”_ G. Andloviz, Cista con coperchio, 1928-30), Fondazione Luigi Rovati, Milano

 

A cosa dobbiamo, quindi, che la gentile reminiscenza degli askoi etruschi (vasi per liquidi oleosi) sia ritrovata sul lungo tempo nei vasi realizzati da Gio Ponti negli anni Trenta (Cista “La passeggiata archeologica”, 1926-27)? Quale nesso o interesse porta a ristabilire il soggetto delle figure distese o “Recumbenti moderni” nell’attività di Leoncillo Leonardi (Amanti antichi, 1965)? Si tratta solo di una ripresa di forme e strutture? Sta di fatto che gli esempi non mancano. Dall’Odalisca (1930) di Arturo Martini alle Copertine di importanti testate internazionali ridisegnate da Alighiero Boetti nel 1985, per creare una mappa degli eventi più importanti di quell’anno. Una serie che si apre con l’immagine di Epoca dedicata al Progetto Etruschi.

La soglia che ci divide da quel che è stato pare non essere così ampia. Ci determina forse più di quanto possiamo immaginare. Consapevolmente o inconsapevolmente, per via di un metodo che a un primo sguardo potrebbe apparirci come un gioco e una provocazione. E invece genera domande. Spinge l’occhio sulla via dello studio, della ricerca di cosa sia veramente quel classico che non riusciamo ancora a scrollarci di dosso. Un classico di stampo etrusco, sia ben inteso, che nulla ha a che vedere con la misura greca. Giacché, aveva scritto nel 1930 l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, in Etruria l’artista “non ha mai avuto la preoccupazione di creare un archetipo di bellezza. Tende prima di tutto all’espressione. Cerca il carattere piuttosto che la bellezza, l’insieme espressivo piuttosto che la perfezione dei dettagli”.

Etruschi del Novecento, exhibition view, (centro e destra, Roberto Sebastiàn Matta Il sorriso verticale della Gioconda, 1978_ sin, Testa votiva di terracotta, II sec. a.C), Fondazione Luigi Rovati, Milano

Secondo un approccio singolare che lo vede prediligere materiali “anticlassici” quali la terracotta e il bucchero, e soluzioni che restano affezionate all’eccesso espressivo, alla “deformazione”, come al “grottesco” e alla “scorrettezza formale”, afferma Vittorio Sgarbi nell’introduzione al catalogo. Che siano questi gli aspetti sui quali tentare una probabile lettura del novecento e dei suoi sviluppi odierni? Nella Colonna di menti (1981) di Giuseppe Penone – una delle opere del maestro piemontese presentate nella mostra Vulci – il tempo dismetteva le sue distanze e si intuiva in essa il gorgoglio di una novità scultorea già impressa nella proporzionalità della ceramica etrusca. Una storia che si rivede passo dopo passo, per essere, in un certo senso, “riscoperta” tra le opere in permanenza della Fondazione, da Giulio Paolini a Luigi Ontani e fino a Andy Warhol. 

E sembra quasi il paradosso di un atteggiamento innato, quello che gli artisti mano a mano si sono riservati di rivelare, benché aderenti a canoni tutt’altro che tradizionalisti. Ma si giunge, invero, alle Teste di Roberto Sebastiàn Matta, scolpite in terracotta nel 1978 per la serie Il sorriso verticale della gioconda. Tipizzate da un sorriso arcaico e insieme ironiche, come specchio dello stravolgimento espressionista. Così per comprendere che il dialogo tra antico e moderno è un dialogo impossibile, a meno che non sia frutto di un tradimento. Frutto di una generazione che, per quanto nuova, ha bisogno di riconoscere in se stessa la radice di una contemporaneità anticlassica, per solcare nuove vie poggiando su di essa.

Alighiero Boetti, Copertine (Anno 1985), 1985, grafite su carta, Fondazione Luigi Rovati, Milano, © Fondazione Luigi Rovati, Milano

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