
Dopo quindici anni di attività la Galleria Monopoli chiude i battenti della sede di via Ventura 6 con la mostra Cantando sotto la pioggia di Giovanni Frangi. L’esposizione visitabile fino al prossimo 26 giugno 2025 propone una serie di opere in bianco e nero che hanno come soggetto la pianta esotica Heliconia Paradise.
La pittura di Giovanni Frangi appare agli occhi come alla mente. Ed è una questione di pratica, si potrebbe dire, con conseguenti patimenti per chi, con il senno del poi, è tentato di scriverne. Difficile è, insomma, cercare le parole per rendere ciò che parole non ha. L’immagine è presente, sebbene mai sottomessa alla voglia di dominarla, poiché ciò che il pittore intenta è la presa sintetica di un dato, e uno solo nel nostro caso, ora colto nella sua inevitabile varietà.
Quanto nei fatti accade nella mostra Cantando sotto la pioggia presso la Galleria Monopoli di Milano è, per l’appunto, la manifestazione di un unico soggetto. L’Heliconia Paradise, una pianta esotica di cui Frangi aveva scattato una serie di fotografie nel lontano 2012 in quel di Fuerteventura. Dodici opere su carta in egual misura e nove tele di diverse dimensioni, installate come se fossero una. Una? si potrebbe contestare, pensando che non vi sia nessuno scarto tra un dipinto e l’altro. Un punto qui e uno là; Frangi gli gira attorno a partire da ciò che gli si presenta dinnanzi. Ne invade la “rotondità” del tutto lontano dall’efficacia dell’artificio prospettico, giacché anche questo è variante, o motivo, che muta, pertanto, al mutare dell’occhio che lo sorprende.

La condizione rimane la medesima, e sta qui la posta in gioco: egli intuisce nella pittura l’impossibilità di anteporre una visione d’insieme del soggetto considerato alla dinamica che esso impone. Linee e segni distesi nei toni del nero, assuefatti in parte dallo sfondo bianco, che alternatamente si pone in secondo piano quando la grammatica del colore si fa più densa. Una grammatica tutta sua che, più che venire esplicitata, pare giocare con le giustapposizioni delle forme che via via emergono e si fanno strada tra una tela e l’altra.
In tempi recenti, in una conversazione con con Alessio Vigni, l’artista metteva in luce come nel fatto d’arte e nell’attività di un pittore che sia, fosse interessante “la progressione che c’è all’interno di un lavoro”. Uno, ancora, o magari lo stesso, per dirlo in maniera inadeguata, tanto da portare a reinterrogare nuovamente la concezione della serie. In altre parole: una serie di dipinti che hanno a tema lo stesso soggetto e, al contrario, ciò che nasce dal dipinto stesso o che il dipinto stesso, apparentemente chiuso, porta alla luce come elemento di lavoro. “Una pittura che nasce dalla pittura” (aveva scritto Massimo Recalcati), che tuttavia spinge il gusto dell’astante (e perché no, dell’artista) verso il soggetto dipinto nell’itinere dell’immagine.
Quel che stupisce, in fondo, è la delicatezza di una sintesi che per nulla al mondo stravolge la realtà del dato, ma ne stabilisce delle nuove coordinate coloristiche che lo fanno diventare punto di partenza, più che compiaciuto punto d’arrivo. Annodate, profonde, finanche incomprese, indiscutibilmente astratte e, insieme, precisamente reali. Le opere esposte indicano la specificità di un cammino che, nella particolarità del titolo e della mostra in questione, fanno emergere l’armonia dell’inciampo. Ossia la “lirica” della rappresentazione per quello che veramente è. Non riproduzione, ma canto di una pratica nel grigio delle forme. E quindi, passi quasi monocromi necessari al tentativo di rendere in pittura l’esperienza di ciò che è visto.
