
Con “Poemi della terra nera”, Wangechi Mutu approda per la prima volta alla Galleria Borghese, portando con sé una visione che intreccia mitologia, materia e memoria
Non si varca la soglia: si affonda. Nella terra, nel tempo, nella memoria. Alla Galleria Borghese riecheggia la voce di Wangechi Mutu (Nairobi, 1972) — profonda, materica, rituale. Con Poemi della terra nera, l’artista keniota-americana trasforma lo spazio della memoria in un organismo vivo, in metamorfosi. Dal 10 giugno al 14 settembre, la mostra a cura di Cloé Perrone si presenta come un intervento site-specific che si estende tra le sale interne, i Giardini Segreti e la facciata della Galleria Borghese, mettendo in discussione il suo ordine visivo e simbolico. Il titolo evoca la duplice natura della sua pratica: poetica e materica.
La “terra nera” è al tempo stesso sostanza fertile e metafora generativa – un luogo da cui affiorano forme ibride, storie frammentate, cosmologie alternative. Mutu invita a ripensare il museo non come un contenitore di tesori, ma come un campo di forze in movimento, dove ogni opera è soglia, domanda, possibilità.
Come già accaduto con la recente esposizione su Giovan Battista Marino, anche questo progetto nasce da un’intenzione precisa della Galleria: esplorare la poesia non solo come forma letteraria, ma come principio generativo di visioni e immaginari. In questo senso, Mutu è interlocutrice ideale. La sua pratica – sospesa tra mito e denuncia, memoria ancestrale e visione futura – rende la “terra nera” evocata nel titolo non solo un elemento materico e simbolico, ma anche un punto di contatto tra storie, identità e cosmologie.

Terreno fertile
Nel cuore della mostra pulsa la metafora del terreno fertile, malleabile, intriso d’acqua e memoria. La “terra nera”, che si insinua nei Giardini Segreti della Galleria e si fa matrice delle sue sculture, si trasforma in organismo generativo, da cui emergono forme ibride, mitologiche, femminili, dense di stratificazioni culturali. È una terra che parla, che canta, che racconta – attraverso bronzo, piume, cera, legno, acqua e carta – le storie del passato e le urgenze del presente.
La scelta dei materiali diventa così un atto politico oltre che poetico: Mutu non contrappone, ma mescola. Inserisce sostanze organiche e fluide in un luogo dominato dal marmo e dall’oro, sovvertendo la logica monumentale della permanenza per affermare quella della trasformazione. Un’estetica del divenire che anticipa uno dei fili conduttori del programma espositivo 2026 della Galleria: il tema delle metamorfosi.
All’interno del museo, le opere di Mutu si posano leggere, come apparizioni. Ndege, Suspended Playtime, First Weeping Head e Second Weeping Head non occupano lo spazio, ma lo ricodificano. Penzolano dai soffitti, ridefinendo il campo visivo. Non oscurano la collezione permanente, ma la interrogano con discrezione e fermezza. La loro sospensione non è solo fisica: è concettuale. Sollevano domande sul tempo, sulla narrazione, sulla gerarchia degli oggetti e delle storie.

Organismo vivo
Il museo – come sottolineato dalla direttrice Francesca Cappelletti – non è più contenitore neutro di capolavori, ma organismo vivo, in costante dialogo con chi lo abita e lo attraversa. Le sculture di Mutu non chiedono spazio, ma lo creano: evocano spiriti, fantasmi, memorie rimosse, e ci spingono a vedere ciò che è stato nascosto o taciuto.
All’esterno, la mostra continua con una forza altrettanto intensa. Sulla facciata della Galleria e nei Giardini Segreti prendono posto opere come The Seated I e The Seated IV – già presentate nel 2019 al Metropolitan Museum di New York – e ancora Nyoka, Heads in a Basket, Musa e Water Woman. Cariatidi contemporanee, vasi archetipici, donne-dee o creature in transizione: ogni opera è un contenitore di senso, un’interrogazione sul potere, sull’identità, sulla presenza.
Il video The End of Eating Everything introduce una nuova dimensione temporale e immersiva alla poetica dell’artista, aggiungendo il movimento e il suono come strumenti narrativi. Il ritmo sospeso di Poems for my Great Grandmother I e il testo The Grains of Words, tratto dalla canzone War di Bob Marley (a sua volta ispirata al discorso anticoloniale di Haile Selassie del 1963), espandono ulteriormente i confini linguistici della mostra: il suono diventa scultura, la parola corpo.

American Academy
Il viaggio continua all’American Academy in Rome, con l’intensa e silenziosa Shavasana I, figura bronzea distesa, coperta da una stuoia intrecciata, posizionata accanto a iscrizioni funerarie romane. Un’opera che evoca la morte, la dignità, il tempo sospeso, e che testimonia l’intento di Mutu di non separare mai arte e vita, estetica e responsabilità.
In questa esposizione, resa possibile grazie al sostegno di FENDI, la Galleria Borghese conferma il suo rinnovato impegno nell’arte contemporanea, dopo i progetti dedicati a Giuseppe Penone (2023) e Louise Bourgeois (2024).
Con Poemi della terra nera, Wangechi Mutu ridefinisce l’idea stessa di esposizione. La sua arte, fragile e potente, frammentaria e universale, ci guida dentro un’esperienza in cui la storia si riscrive e il museo si trasforma in luogo di metamorfosi, di immaginazione radicale, di poesia incarnata. Un viaggio tra materia e mito, presenza e assenza, per imparare – forse – a esistere diversamente.