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Poemi della terra nera di Wangechi Mutu. La metamorfosi contemporanea entra alla Galleria Borghese

Wangechi Mutu, Suspended Playtime, 2012, Garbage bags and twine, Dimensions variable, Installation Staatliche Kunsthalle Baden-Baden, Courtesy the Artist and Gladstone Gallery Wangechi Mutu, Suspended Playtime, 2012, Garbage bags and twine, Dimensions variable, Installation Staatliche Kunsthalle Baden-Baden, Courtesy the Artist and Gladstone Gallery
Wangechi Mutu, Suspended Playtime, 2012, Garbage bags and twine, Dimensions variable, Installation Staatliche Kunsthalle Baden-Baden, Courtesy the Artist and Gladstone Gallery
Wangechi Mutu, Suspended Playtime, 2012, Garbage bags and twine, Dimensions variable, Installation Staatliche Kunsthalle Baden-Baden, Courtesy the Artist and Gladstone Gallery
Con “Poemi della terra nera”, Wangechi Mutu approda per la prima volta alla Galleria Borghese, portando con sé una visione che intreccia mitologia, materia e memoria

Non si varca la soglia: si affonda. Nella terra, nel tempo, nella memoria. Alla Galleria Borghese riecheggia la voce di Wangechi Mutu (Nairobi, 1972) — profonda, materica, rituale. Con Poemi della terra nera, l’artista keniota-americana trasforma lo spazio della memoria in un organismo vivo, in metamorfosi. Dal 10 giugno al 14 settembre, la mostra a cura di Cloé Perrone si presenta come un intervento site-specific che si estende tra le sale interne, i Giardini Segreti e la facciata della Galleria Borghese, mettendo in discussione il suo ordine visivo e simbolico. Il titolo evoca la duplice natura della sua pratica: poetica e materica.

La “terra nera” è al tempo stesso sostanza fertile e metafora generativa – un luogo da cui affiorano forme ibride, storie frammentate, cosmologie alternative. Mutu invita a ripensare il museo non come un contenitore di tesori, ma come un campo di forze in movimento, dove ogni opera è soglia, domanda, possibilità.

Come già accaduto con la recente esposizione su Giovan Battista Marino, anche questo progetto nasce da un’intenzione precisa della Galleria: esplorare la poesia non solo come forma letteraria, ma come principio generativo di visioni e immaginari. In questo senso, Mutu è interlocutrice ideale. La sua pratica – sospesa tra mito e denuncia, memoria ancestrale e visione futura – rende la “terra nera” evocata nel titolo non solo un elemento materico e simbolico, ma anche un punto di contatto tra storie, identità e cosmologie.

 

Wangechi Mutu (foto Khadija Farah)
Wangechi Mutu (foto Khadija Farah)
Terreno fertile

Nel cuore della mostra pulsa la metafora del terreno fertile, malleabile, intriso d’acqua e memoria. La “terra nera”, che si insinua nei Giardini Segreti della Galleria e si fa matrice delle sue sculture, si trasforma in organismo generativo, da cui emergono forme ibride, mitologiche, femminili, dense di stratificazioni culturali. È una terra che parla, che canta, che racconta – attraverso bronzo, piume, cera, legno, acqua e carta – le storie del passato e le urgenze del presente.

La scelta dei materiali diventa così un atto politico oltre che poetico: Mutu non contrappone, ma mescola. Inserisce sostanze organiche e fluide in un luogo dominato dal marmo e dall’oro, sovvertendo la logica monumentale della permanenza per affermare quella della trasformazione. Un’estetica del divenire che anticipa uno dei fili conduttori del programma espositivo 2026 della Galleria: il tema delle metamorfosi.

All’interno del museo, le opere di Mutu si posano leggere, come apparizioni. Ndege, Suspended Playtime, First Weeping Head e Second Weeping Head non occupano lo spazio, ma lo ricodificano. Penzolano dai soffitti, ridefinendo il campo visivo. Non oscurano la collezione permanente, ma la interrogano con discrezione e fermezza. La loro sospensione non è solo fisica: è concettuale. Sollevano domande sul tempo, sulla narrazione, sulla gerarchia degli oggetti e delle storie.

 

Wangechi Mutu, The Seated I, 2019, Bronze, Courtesy of the Artist and Gladstone Gallery, Metropolitan Museum, foto Joseph Coscia, Jr.
Wangechi Mutu, The Seated I, 2019, Bronze, Courtesy of the Artist and Gladstone Gallery, Metropolitan Museum, foto Joseph Coscia, Jr.
Organismo vivo

Il museo – come sottolineato dalla direttrice Francesca Cappelletti – non è più contenitore neutro di capolavori, ma organismo vivo, in costante dialogo con chi lo abita e lo attraversa. Le sculture di Mutu non chiedono spazio, ma lo creano: evocano spiriti, fantasmi, memorie rimosse, e ci spingono a vedere ciò che è stato nascosto o taciuto.

All’esterno, la mostra continua con una forza altrettanto intensa. Sulla facciata della Galleria e nei Giardini Segreti prendono posto opere come The Seated I e The Seated IV – già presentate nel 2019 al Metropolitan Museum di New York – e ancora Nyoka, Heads in a Basket, Musa e Water Woman. Cariatidi contemporanee, vasi archetipici, donne-dee o creature in transizione: ogni opera è un contenitore di senso, un’interrogazione sul potere, sull’identità, sulla presenza.

Il video The End of Eating Everything introduce una nuova dimensione temporale e immersiva alla poetica dell’artista, aggiungendo il movimento e il suono come strumenti narrativi. Il ritmo sospeso di Poems for my Great Grandmother I e il testo The Grains of Words, tratto dalla canzone War di Bob Marley (a sua volta ispirata al discorso anticoloniale di Haile Selassie del 1963), espandono ulteriormente i confini linguistici della mostra: il suono diventa scultura, la parola corpo.

 

Wangechi Mutu, Nyoka, 2022, Bronze, Courtesy of the Artist and Gladstone Gallery
Wangechi Mutu, Nyoka, 2022, Bronze, Courtesy of the Artist and Gladstone Gallery
American Academy

Il viaggio continua all’American Academy in Rome, con l’intensa e silenziosa Shavasana I, figura bronzea distesa, coperta da una stuoia intrecciata, posizionata accanto a iscrizioni funerarie romane. Un’opera che evoca la morte, la dignità, il tempo sospeso, e che testimonia l’intento di Mutu di non separare mai arte e vita, estetica e responsabilità.

In questa esposizione, resa possibile grazie al sostegno di FENDI, la Galleria Borghese conferma il suo rinnovato impegno nell’arte contemporanea, dopo i progetti dedicati a Giuseppe Penone (2023) e Louise Bourgeois (2024).

Con Poemi della terra nera, Wangechi Mutu ridefinisce l’idea stessa di esposizione. La sua arte, fragile e potente, frammentaria e universale, ci guida dentro un’esperienza in cui la storia si riscrive e il museo si trasforma in luogo di metamorfosi, di immaginazione radicale, di poesia incarnata. Un viaggio tra materia e mito, presenza e assenza, per imparare – forse – a esistere diversamente.

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