
In questo XXI secolo, la massa di pubblico di ogni ceto sociale è vittima dei media. Citano il nome dell’artista, incoronandolo Il Più Grande, e ogni opera in esposizione viene celebrata come un Capolavoro. Stupore, disagio e desiderio di fuga per coloro che varcano la soglia di uno spazio espositivo accolti da opere contemporanee del tutto incomprensibili. C’è da rammaricarsi se questo avvenisse per l’antologica dedicata a Fausto Melotti (Rovereto 1901 – Milano 1986) a Torino presso la Galleria d’Arte Moderna, a cura di Chiara Bertola e Fabio Cafagna. Inaugurata il 25 maggio, terminerà il 7 settembre.
Melotti era un personaggio multiforme, ingegnere, dedito per diletto al pianoforte, e infine artista e sperimentatore di tecniche del tutto inusuali. Lo caratterizzava un’ironia puntuta, anche rivolta a se stesso. Ha prodotto sculture, ceramiche, dipinti, disegni. Ma il successo è stato tardivo, e raggiunto solo nel secondo dopoguerra. Prima aveva avuto a che fare con chi rifiutava, sin dal primo sguardo, le sue ricerche tridimensionali di rigore astratto. Era stato umiliato da un commento di Carlo Carrà: “Melotti è intelligente, ma le sue non sono sculture”.
Negli Anni ’60, indirettamente, l’avrebbe vendicato il sarcasmo di Ennio Flaiano: “Dio! Dio! fai che domattina, aprendo le finestre, non mi trovi davanti una Marina di Carrà!”
Melotti nel ventennio fascista era ovviamente isolato per le sue sculture senza attinenza figurativa, eresie rispetto al Classicismo imposto dal Regime. Fuori dalla consueta retorica, la sua solitudine lo portò a un’ingegnosità senza pari. Unico artista al mondo che considererà la materia una fandonia non indispensabile, poiché nelle usuali tecniche espressive ne avvertiva la fredda immobilità di pura comparsa. Una consapevolezza senza compromessi, per transitare dal pensiero poetico alla messa in pratica esecutiva della forma intuita. La musica era per lui elemento costitutivo fondamentale; celata nel groviglio materico, lo guidava a combinazioni armoniche, realizzando vuoti, pieni, intervalli di spazi risonanti valori melodici.
La Musica si connetteva così all’Arte, in una percezione di pulsioni udibili attraverso gli occhi e una coscienza attenta. È questo il caso del capo lavoro del Melotti trentaquatrenne titolato Scultura n.15. Costrutto astratto in gesso di assoluta purezza; tre colonne diritte poste a semicerchio concavo, e un’altra altra curva e trasversale, come una esse. Il parallelepipedo di base è dunque una scatola musicale? È presumibile che Fausto Melotti si sia ispirato alla chiave di violino privilegiandone l’essenzialità della forma.
Aveva fatto anche uso di materiali ferrosi, filiformi, progettando intervalli di spazi, definendo linee di demarcazione in costrutti tridimensionali. Astratto, e insieme surreale è Clair de lune del 1973, in ottone e carta patinata; titolo plausibilmente di riferimento alla composizione per pianoforte di Claude Debussy. Per altro era prozio del pianista Maurizio Pollini (Milano 1943 – Milano 2024) esecutore di fama internazionale, e il compositore francese era spesso presente nel suo repertorio. Melotti non perdeva occasione di essere presente ai suoi concerti. Con il giovane pronipote avrà certamente condiviso un’acuta riflessione sulla musica applicabile anche all’arte: “Come sapere se abbiamo compreso il senso di una musica? Dall’emozione che ci procura. È un criterio soggettivo, eppure è l’unico che funziona veramente”.