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Padiglione o non padiglione? Un dilemma a stelle e strisce

Padiglione degli Stati Uniti di Jeffrey Gibson alla Biennale di Venezia del 2024. Foto Vittorio Zunino Celotto/Getty Images
Padiglione degli Stati Uniti di Jeffrey Gibson alla Biennale di Venezia del 2024. Credits: Vittorio Zunino Celotto. Courtesy of Getty Images
Mentre numerosi Paesi iniziano già a svelare visioni e progetti per i propri padiglioni alla Biennale di Venezia 2026, il grande assente continua a far parlare di sé: gli Stati Uniti. Sebbene la procedura ufficiale di candidatura sia appena partita, qualcosa si muove dietro le quinte. E una proposta, anomala e inaspettata, sembra già circolare in modo informale.

A lanciarla non è un curatore, né un museo o un’istituzione culturale: bensì Curtis Yarvin, controverso blogger di estrema destra, descritto da Politico come “l’ispiratore di una nuova generazione MAGA”. A confermare l’interesse di Yarvin per la Biennale è anche un profilo firmato da Ava Kofman sul New Yorker, in cui si parla delle sue idee per un possibile Padiglione USA.

Secondo quanto riportato, Yarvin avrebbe immaginato un padiglione “dissident-right art hos” – un’espressione provocatoria che punta a rompere gli schemi della rappresentazione artistica americana. La proposta sarebbe stata presentata ad aprile a Darren Beattie, Sottosegretario per la Diplomazia Pubblica, anche lui figura discussa vicina agli ambienti trumpiani.

Ma cosa si intende davvero per “destra dissidente”? Si tratta di un movimento culturale e politico apertamente anti-woke, che ha trovato terreno fertile in luoghi simbolici come Dimes Square, microzona di New York diventata sinonimo di un’attitudine satirica e iconoclasta. Come scriveva nel 2022 Dean Kissick su Spike, questa corrente si distingue per “la noia verso l’indignazione performativa” e un’avversione per il “didatticismo serioso”.

Non è chiaro, secondo il New Yorker, chi sarebbero gli artisti coinvolti né se la proposta di Yarvin abbia effettivamente fatto breccia nei corridoi del potere culturale americano. Ma una cosa è sempre più certa: il Padiglione USA sembra trovarsi in un momento di forte tensione e incertezza, acuita dall’avvio del secondo mandato Trump.

Come già evidenziato da Nate Freeman su Vanity Fair, la finestra per candidarsi si è aperta in ritardo rispetto alle edizioni precedenti, e la stessa documentazione ufficiale presenta un linguaggio significativamente diverso. Se prima si parlava apertamente di inclusione e diversità, oggi si legge che “i programmi devono mantenere un carattere apolitico e rappresentare la diplomazia della vita politica, sociale e culturale americana”.

Il termine per la presentazione delle proposte è fissato al 30 luglio 2025, e il progetto selezionato – che riceverà un finanziamento di 375.000 dollari dal Bureau of Educational and Cultural Affairs – sarà annunciato entro il 1° settembre. Un tempo estremamente ristretto per progettare, realizzare e installare un padiglione degno della scena globale.

Onestamente, credo che siamo già oltre il punto di non ritorno”, aveva commentato con franchezza Kathleen Ash-Milby, co-curatrice del padiglione di Jeffrey Gibson alla Biennale del 2024, intervistata da Vanity Fair lo scorso maggio.

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