
Ancora per pochi giorni, fino al 15 giugno, sarà possibile vedere, negli ambienti del complesso di San Salvatore in Lauro a Roma, una ricca selezione di xilografie shin-hanga. La mostra “Gli Shinhanga. Una rivoluzione nelle stampe giapponesi”, già passata a Torino, è curata da Paola Scrolavezza, e propone un ampio numero di lavori, per lo più provenienti dalla collezione della Japanese Gallery Kensington di Londra.
Certo, qualcuno potrebbe criticare la mostra per non essere una ricognizione precisa e scientifica sul fenomeno giapponese delle shin-hanga – letteralmente le nuove stampe – e presentarsi invece come un’operazione di divulgazione, con tanto di accompagnamento musicale nelle sale (personalmente abbiamo invece gradito le malinconiche canzoni enka di Takamine Mieko). Ma è proprio nel suo spirito divulgativo, a mio avviso, che risiede il merito maggiore della rassegna, che permette al pubblico romano di allargare una conoscenza dell’arte giapponese sovente lacunosa, se non ferma a Hokusai, nella migliore delle ipotesi. Si possono dunque vedere direttamente fogli e creazioni di più difficile circolazione, e affiancati da alcuni esempi più datati e più contemporanei, che aiutano almeno in parte a comprendere le origini e gli sviluppi futuri di questa forma d’arte.
Il fenomeno shin-hanga ci parla dell’ennesima negoziazione tra una cultura estremamente coerente come quella giapponese e le suggestioni, possiamo anche dire esotiche, venute dal mondo occidentale. L’esigenza degli artisti giapponesi di riformulare le regole del genere delle ukiyo-e del periodo Edo, modernizzandole, nasce negli ultimi anni dell’Ottocento, subito dopo l’apertura traumatica del Giappone ai contatti con l’Occidente, nel periodo Meiji. Ma è durante gli anni Venti e Trenta del Novecento che si assiste al vero fiorire di questa corrente artistica, in bilico tra tradizione e modernità, tra Occidente e Oriente, e perciò seducente come solo le realtà meticcie sanno essere: da un lato appare uno spazio prospettico all’occidentale, meno astratto e più verista, un uso di colori più brillanti (che a tratti sembra perfino anticipare anime moderni), l’uso del nudo, o di un taglio fotografico che vadano incontro al gusto occidentale, anche tramite vedute notturne e accattivanti di incredibile fascino evocativo; dall’altro lato la permanenza dei grandi soggetti della tradizione delle ukiyo-e, come le belle donne, bijin, o i ritratti dei grandi attori del kabuki, o l’avvicendarsi delle stagioni, che portarono al genere le critiche degli artisti sōsaku-hanga, contraddistinti invece da una vocazione molto più marcata all’originalità e alla sperimentazione.

È poi riflessa, in queste creazioni, una società giapponese inedita e in profonda trasformazione per il massiccio impatto delle novità culturali occidentali: incredibili tanto le vedute di spiagge marine con i bagnanti, essendo la balneazione estiva un’abitudine importata da Occidente ed estranea alla cultura giapponese, quanto il carattere più moderno che assumono i ritratti delle donne (su questo, un interessante approfondimento di Marta Fanasca in catalogo), o le vedute turistiche di monumenti occidentali – si vedano le trasognate vedute di Yoshida Hiroshi dell’Acropoli di Atene o della Sfinge al Cairo. Sembrerebbe in alcuni casi, poi, che si sia fatto il giro, da un Occidente che durante il secondo Ottocento vagheggiava le atmosfere nipponiche, a un Giappone che, diversi decenni dopo, riproponeva con le shin-hanga un immaginario costruito sull’idea estetica più o meno superficiale che l’Occidente stesso, sul Giappone e sull’arte giapponese, si era fatto. E basta osservare certi paesaggi indefiniti diYamamoto Shōun, o la veduta veneziana di Urushibara Yoshijirō, o gli eccezionali notturni di Kawase Hasui, a richiamare il Whistler più brumoso. Ed è di certo strano, scovare con i nostri occhi occidentali, inattesi echi tra le finestre illuminate di notte incise da Kawase, e quell’Empire des lumières cui Magritte lavorava pochi anni dopo, oppure tra le creature marine di Yoshida Tōshi e certe ricerche strattiste (di fatti la ricerca di Yoshida si sviluppò sul margine tra shin-hanga e sōsaku-hanga).
