
Giorgia Achilarre cura la mostra Belladonna of sadness, dove Serpetti mostra grande sicurezza delle qualità intrinseche della sua pittura
Capita che un giornalista e critico d’arte ogni tanto faccia anche il curatore. E capita che vada a vedere una mostra personale di un artista con il quale ha già lavorato per una mostra, circa un anno prima. E rimanga praticamente allibito per quello che si para davanti ai suoi occhi. Questo è ciò che è successo a chi scrive con la mostra Belladonna of sadness di Davide Serpetti alla Galleria Giovanni Bonelli di Milano. Avevo dunque lavorato con Davide per la mostra Le Diable au Corps, allestita sempre con Giovanni Bonelli, ma nella sede di Canneto sull’Oglio.
Con Daniele Capra, che curava il progetto assieme a me, avevamo selezionato alcuni lavori di Serpetti da esporre con gli altri undici pittori presenti. Opere pienamente affini al tema proposto – lo spunto era l’omonimo romanzo di Raymond Radiguet-, formalmente corrette, decisamente identitarie per un pittore ancora relativamente giovane. Ma dipinti che oggi non esiterei a definire leggeri, incerti, immaturi. Perché? Perché ho visto le nuove opere dell’artista nella mostra attuale, visibile fino al 15 luglio. E credo di poter affermare che mai nella mia esperienza ho constatato una crescita tanto marcata nel lavoro di un pittore. Su diversi piani.

Qualità formali
Il taglio non si diversifica troppo dai dipinti precedenti: con la figura umana al centro dell’attenzione, salvo poche eccezioni. Con un ricorrente pensiero all’icona Medardo Rosso, spunto per interpretazioni trasversali, ora ispirate al cinema o ai fumetti, ora a elaborate indagini psicologiche. Dipinti “in cui la figura si specchia in sé stessa o in un suo alter ego, alimentando una tensione che allude al concetto junghiano di ombra”, come scrive con efficacia la curatrice della mostra Giorgia Achilarre.
Ma sono le qualità formali a segnare una crescita che non esito a definire vertiginosa. Per diversi aspetti, che colpiscono violentemente chi conoscesse le opere precedenti dell’artista. A partire dall’impasto pittorico, ora tangibile, deciso, costruttivo, quando eravamo pronti a trovare stesure lievi, diluite velature, quasi “di prima mano”. Poi ci sono le opzioni cromatiche: laddove c’era una malcerta gamma di timidi pastello, ora abbiamo delle decise tonalità di bruni, blu scuri, gialli pieni, verdi robusti. E ancora i contorni delle figure: se prima parevano “galleggiare” su una superficie priva di riferimenti prospettici, ora sono fortemente definite, sicure della propria forza.
La fisicità dell’immagine
Sintetizzando: un artista che se prima si stava ancora cercando, è ora consapevole delle proprie potenzialità intrinseche. Ed è capace di riversarle sulla tela e soprattutto di evocarle nell’osservatore. “In un mondo dove tutto scorre su uno schermo”, scrive ancora Achilarre, “Serpetti rivendica la fisicità dell’immagine, il pigmento, la macchia, l’errore. ‘La pittura’, dice, ‘non ha bisogno del Wi-Fi’. È una pratica arcaica che continua a raccontarci storie, se solo sappiamo ascoltarle. E in queste storie, forse, troviamo ancora uno spazio per riconoscerci”.
















