
Un appuntamento imperdibile attende il mondo dell’arte nel 2026: a distanza di oltre cinquant’anni, gli Stati Uniti si preparano ad accogliere una colossale retrospettiva dedicata a uno dei giganti più enigmatici e rivoluzionari del Novecento, Marcel Duchamp.
Il sipario si alzerà il 16 aprile al Museum of Modern Art di New York, per poi proseguire in autunno al Philadelphia Museum of Art. A firmare il progetto, un team composto da Ann Temkin e Michelle Kuo per il MoMA, Matthew Affron per Philadelphia.
Una mostra-maratona che ospiterà quasi 300 opere – dai celebri ready-made alla Boîte-en-valise, dalle irriverenti provocazioni visive alla rivoluzione concettuale che ha cambiato per sempre la definizione stessa di “arte”.
E il viaggio non finisce qui: nel 2027, la mostra sbarcherà a Parigi, patria d’origine dell’artista, in una coproduzione firmata Centre Pompidou–Grand Palais. Per l’occasione, e a causa dei lavori in corso al Pompidou, sarà proprio il Grand Palais a ospitare la tappa europea.
“Duchamp resta un mistero”, confessa Michelle Kuo. “Le sue opere più celebri? Solo la punta dell’iceberg. C’è ancora moltissimo da scoprire”.
Perché Duchamp non è “solo” l’uomo che ha messo un orinatoio in un museo e l’ha fatto passare per arte, ma a è molto di più: è il pioniere del concettuale, il genio che ha ridisegnato il confine tra oggetto e significato, tra artista e spettatore.
E la mostra ripercorre l’intero arco della sua carriera, dal Cubismo meccanico del primo ’900 fino alle provocazioni post-dadaiste, passando per opere come Fountain (1917), L.H.O.O.Q. (1919) e il film d’avanguardia Anemic Cinema (1926).
Mancano all’appello solo due opere monumentali, troppo delicate per viaggiare: The Large Glass e Étant donnés, custodite permanentemente al Philadelphia Museum.
“Ogni generazione trova il suo Duchamp”, afferma Matthew Affron. E il fascino dell’artista sembra non esaurirsi mai. Negli anni ’50 era l’assemblaggio, nei ’60 il concettuale, negli ’80 il gioco con l’identità di genere. E oggi?
“Duchamp è ovunque”, scrive Ann Temkin. “Ogni volta che qualcuno chiede: ‘Ma questa è arte?’, sta parlando con Duchamp, anche senza saperlo”.













