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Aleandri cambia galleria, e apre con “Prendere al buio per riportare al buio”

Enzo Cucchi, Prendere al buio per riportare al buio
C’è un luogo a Roma, stretto tra il Campidoglio e piazza Margana, dove il tempo sembra essersi fermato per lasciare spazio a qualcosa di più antico e insieme più vivo, più segreto, più necessario. È il nuovo spazio di Aleandri Arte Moderna, in via d’Aracoeli 7, che da subito si è rivelato non solo una galleria ma una sorta di casa delle apparizioni, un posto dove le opere non si limitano a essere esposte ma respirano, si incontrano, si parlano tra loro in una lingua fatta di materia e ombre.

E proprio qui, in queste stanze che sembrano scavate nella memoria più che nel marmo, è approdata “Prendere al buio per riportare al buio”, una mostra che è prima di tutto un viaggio iniziatico, immaginato da Enzo Cucchi e tradotto in forma dal curatore Mario Finazzi. Non una semplice esposizione, ma una costellazione di mondi, dove ogni opera è una stella che brilla di luce propria eppure appartiene alla stessa galassia cucchiana, fatta di buio e di bagliori improvvisi, di terra cotta e visioni.

Al centro di tutto c’è Paese mio, una scultura in bucchero grande, nera, possente, plasmata dalle mani di Cucchi con l’aiuto di Massimo Luccioli, ultimo custode dell’antica arte etrusca della ceramica nera. È un’opera che sembra uscita da un sogno, o forse da una preghiera, e che porta con sé tutto il peso e la leggerezza di un mistero antico. Il bucchero, con la sua superficie lucida e profonda, è la materia perfetta per raccontare un viaggio che parte dall’oscurità dell’anima e torna all’oscurità della terra, in un cerchio che non si chiude mai davvero.

Aleardi Arte Moderna, la nuova sede

Ma la mostra non è solo Cucchi. O meglio, è Cucchi che apre le porte del suo mondo e invita dentro altri artisti, altre storie, altre ossessioni. Ci sono i disegni di Andrea Salvino, che prendono immagini della cultura popolare e le restituiscono come frammenti di un passato remoto, quasi mitologico. Ci sono le opere di Nori De’ Nobili, prestate dal museo a lei dedicato, tele e carte che sembrano sussurrare parole appena udibili, sospese tra il visibile e l’invisibile. E poi c’è la Litografia Bulla, con i suoi archivi pieni di carte, prove, errori e meraviglie, come un grande libro mai scritto che racconta due secoli di Roma attraverso la patina dell’inchiostro.

Quello che Aleandri ha creato, insieme a Cucchi e Finazzi, non è un semplice allestimento ma una architettura dell’anima, un edificio immaginario le cui stanze sono abitate da presenze che dialogano tra loro al di là del tempo. E se il mercato dell’arte spesso riduce tutto a una questione di prezzi e tendenze, qui si respira un’aria diversa, più rara, più vera. Perché Simone Aleandri, da gallerista atipico, ha scelto di lavorare con cura, lentezza e una devozione quasi artigianale.

Enzo Cucchi, Prendere al buio per riportare al buio

E allora i cataloghi, per esempio, non sono semplici brochure ma oggetti pensati, scritti da studiosi, stampati quasi come fossero libri d’artista. E le opere in mostra non sono tutte in vendita, perché alcune appartengono a musei, ad archivi, a una storia più grande del mercato. E forse è proprio questo il segreto di questo posto: ricordarci che l’arte, a volte, può ancora essere una questione di fede.

La mostra è lì, in via d’Aracoeli, e aspetta solo di essere scoperta. Non è un’esperienza che si consuma in fretta, ma qualcosa che chiede di essere assorbita, come la luce che filtra lentamente in una stanza buia. Perché alla fine, forse, prendere al buio e riportare al buio non è altro che questo: un modo per ricordarci che la vera visione nasce sempre dall’ombra.

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